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Un'altra lapide torna alla "luce" In evidenza

Breve storia del monastero di S. Giovanni Evangelista

Grazie alla lapide (nella foto) affissa internamente¹, a pochi metri sulla sinistra dal portone d’ingresso dell’attuale Ostello del Borgo, sappiamo che proprio il 29 luglio del 1608, quindi quattro secoli fa circa, moriva la badessa (o abbatessa) Fulgenzia LI GREGNI. Eccovi la traduzione in italiano della scritta in latino:
<<PER MEZZO DI DIO, IL PIÙ BUONO, IL PIÙ GRANDE
A suor FULGENZIA LI GREGNI,
esempio di vita purissima,
per 54 anni diligentissima badessa
di questo monastero per concessione papale.
Per lei, le suore, figlie addolorate, posero (questa lapide).
Morì l’anno del Signore 1608
il 4° (giorno) K (delle calende) di agosto (ovvero il 29 luglio)
all’età di 78 anni>>.
Grazie alle notizie raccolte dallo storico gen.le Litterio Villari nel suo prezioso volume Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, Messina 1988, da p. 312, sappiamo che suor Fulgenzia Li Gregni venne eletta badessa (la 3^ su un totale di 16) del Monastero di S. Giovanni Evangelista di Piazza all’età di ventiquattro anni, quindi nel 1554. Allora il monastero operava ancora negli edifici ereditati dalla fondatrice, Florenzia Caldarera vedova del regio milite Giovanni Caldarera. La pia signora Florenzia nel 1361 aveva fondato nella propria casa, dove anticamente c’era l’Oratorio intitolato a S. Giovanni Evangelista, il Monastero del medesimo Santo dotandolo del proprio feudo di contrada Braemi-Rabottano. L’istituzione ebbe l’autorizzazione vescovile adottando la regola di S. Benedetto e dopo circa un secolo dalla fondazione, nel 1450, le sole professe arrivavano ad oltre cento, senza contare le educande e le converse che provenivano esclusivamente da famiglie nobili di Piazza e della Comarca lombarda. La nuova badessa Fulgenzia, monaca di grandi iniziative, progettò nella seconda metà del Cinquecento un grosso ampliamento del monastero, in modo da dare ad ogni consorella una cella e a tutte una permanenza gradita e serena. Durante i suoi 54 anni di governo della Badia portò a compimento l’opera, costruendo al posto dell’antica abitazione Caldarera la nuova chiesa, adattando l’oratorio a refettorio, migliorando il giardino e innalzando una nuova ala dormitorio prospiciente la “stràta a fèra” o “dei mercanti”, l’odierna via Umberto. Poi nel 1664, quindi sessant’anni dalla morte della badessa Fulgenzia, la badessa Maria Stella Episcopo ingrandì ulteriormente l’ala sulla via “dei mercanti” aggiungendo altre 14 celle, dei magazzini e l’infermeria. Dopo il terremoto del 1693, la badessa Margherita Solonia dei baroni di Bonfalura ricostruì il muro di cinta lungo la salita S. Giovanni chiamata “scalazza”. Nel 1697 la badessa Ottavilla (o Ottovilla) La Valle dei baroni di Gerace e Geracello spese 390 onze, dietro autorizzazione vescovile, per restaurare il dormitorio lungo la “stràta û Prìnc’p”, oggi via Garibaldi. All’inizio del Settecento, sotto il governo della badessa Ottovilla Torricella, furono ultimati i lavori di completamento della chiesa, mentre fu rinviata la realizzazione del campanile per l’indisponibilità dei mezzi finanziari. Nel 1715 ritorna la badessa suor Margherita Solonia e realizza due oratori, al piano terra e al primo piano. Poi, nel 1721, nell’occasione di una eredità di 400 onze pervenuta all’anziana suora Ottavilla La Valle, l’abbatessa Angelica Cremona utilizzò la somma per il completamento e l’abbellimento della chiesa chiamando il pittore fiammingo Guglielmo Borremans (1670-1744) che lavorava in quel periodo a Caltanissetta, per gli affreschi. Qualche anno dopo fu progettato e ultimato (nel 1730 ca.) il campanile, come torre campanaria isolata nell’interno del monastero, sotto il governo di suor Eletta Cremona sorella di Angelica. Da allora, dall’alto della torre, le diverse campane suonate all’alba dalle converse, iniziarono a svegliare i Piazzesi che le chiamavano “i campàni da batìa”. Nel 1759, sotto il governo della badessa Maria Crocifissa Cagno, per minaccia di crollo fu abbattuto il dormitorio sull’odierna via Garibaldi per ricostruirlo ex novo. Un secolo dopo, nel 1860, venne demolito il dormitorio sull’odierna via Umberto per ricostruirlo su due piani, come lo vediamo oggi. La vita economica del monastero poteva contare sui proventi di feudi, terre seminative, noccioleti, orti, mulini, raccolte di legna, operazioni finanziarie della propria “Cassa di li Capitali” che operava come un vero e proprio istituto di credito, specie dal 1709 quando col nome di “Cassa di S. Giovanni” l’attività aumentò in misura notevole superando decisamente quella del Monte di Pietà cittadino. All’istituto delle suore si rivolgevano la Deputazione frumentaria del Comune, l’amministrazione Comunale, quella Fidecommissaria della Chiesa Madre (Duomo poi Cattedrale), quelle delle varie Case religiose (Teatini, Gesuiti). C’era anche il reddito proveniente dalle attività artigianali delle monache come dolci e manufatti cuciti e ricamati e delle scuole femminili (magistrale, professionale e musicale per l’apprendimento del clavicembalo, dell’organo, della viola e del violino). Tra le entrate più importanti, c’era anche quella proveniente dalla “dote” che ciascuna monaca portava al momento dell’entrata al monastero che non poteva essere inferiore alle 200 onze. Un’onza corrispondeva a ca. 180 Euro di oggi. Nel 1867 con le leggi Siccardi il nuovo Governo Piemontese confiscò tutti i beni dei monasteri e dei conventi e quello di S. Giovanni Evangelista raccolse tutte le monache sfrattate dagli altri monasteri. Le monache, minacciate di galera e trattate con durezza, ebbero soltanto una minima sovvenzione per sopperire alle più urgenti necessità. Tutto ciò le costrinse a farsi coraggio e a tirare avanti con il loro lavoro di cucito, ricamo, dolceria e scuola di musica. Sino al 1916, quando il Comune, per dare alloggio ai prigionieri di guerra, ordinò alla badessa di allora, suor Marianna Ciancio, di lasciare libero da cose e da persone il monastero entro 8 giorni, dopo ben 555 anni. 

¹ «Quella lapide l'ho fatta collocare io circa otto anni addietro, proprio per evitare che andasse perduta. Il primo che parlò del monastero fu Alceste Roccella e poi, agli inizi del 900, Mons. Calogero Minacapelli pubblicò un libro molto dettagliato sulla storia del monastero e della chiesa nel quale si legge anche della lapide e di tantissime altre notizie molto interessanti. A questo libro attinse molto il Generale Villari». (Prof. Marco INCALCATERRA, agosto 2017)

cronarmerina.it


Commenti  

0 #1 antonio barbera 2019-03-10 13:52
Un articolo documentato e di piacevole lettura , molti detti e toponimi popolari hanno riscontro in eventi storici
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