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Cronarmerina - Dicembre 2015

Libro che parla anche di Piazza nel Cinquecento

 

                      Il volume recensito1

Palazzo Starrabba poi Trigona in via Umberto, 45, Piazza Armerina (EN)

Chiesa di S. Vincenzo Ferreri, Piazza Armerina (EN)

           Il libro nella foto in alto, di cui si sarebbe apprezzato l’indice, può essere considerato una sorta di radiografia della società siciliana, e in particolare della società nobiliare nel Val di Noto, tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento, per arrivare ai primi del Seicento. Tante sono le notizie e i particolari che fanno gola agli appassionati della storia e della vita sociale di quel periodo: nomi di feudi, notai, promesse di matrimonio in tenerissima età (p. 97), cruenti faide familiari (p. 64) con relative vendette e riappacificazioni, curiosi e ripetitivi cerimoniali nella presa di possesso per ognuno dei feudi ereditati (pp. 51, 85, 92, 135). Non esclusa la consuetudine di tenere, nei propri palazzi, schiavi di ogni genere, soprattutto nordafricani, sia per i lavori domestici sia per quelli pesanti, acquistati, venduti, prestati ad altri nobili, lasciati in eredità o liberati per buona condotta, concedendo loro, in qualche caso, persino il privilegio di assumere lo stesso cognome del padrone. A Noto, su una popolazione di 10.000 abitanti, quasi come quella che aveva allora Piazza3, si contavano circa 600 schiavi.
           Filo conduttore del libro è la storia di un feudo, quello di Scibini, o Xibini o ancora Dichibini, nella “marittima” di Noto (p. 25), possesso familiare della baronessa Ippolita Sortino. Esso comprendeva, nella lingua di terra prospicente il mare, detta Marzamemi, ad uso di pascolo per pecore, capre e maiali, anche un piccolo porto, come caricatore / scaricatore di derrate agricole e, nel ‘600, tonnara, chiamato dagli Arabi (Idrisi) “Marsâ ‘al Hamâm”, ovvero “Baia delle Tortore” o, per qualcuno (Sebastiano Lupo), “Porto della Colomba”, dal nome delle imbarcazioni che allora vi approdavano. In proposito, l’autore pubblica un rogito notarile del 1456, appartenuto alla famiglia Sortino, che rappresenta il più antico documento contenente il toponimo di Marzamemi (p. 26).
           Nella prima parte, si esaminano le vicende dei maggiori rappresentanti del nobile casato netino, dal barone Antonino Sortino, personaggio molto in vista e grande proprietario terriero, al suo primogenito Guglielmo, capitano di giustizia a Noto, dove fu insignito del titolo di patrizio, poi trasferitosi a Siracusa, ricoprendo la carica di giurato (pp. 23-83). Fino ad arrivare al barone Vincenzo Sortino, dal cui matrimonio con Dorotea Bellomo nacque, nel 1546, a Siracusa, l’unica loro discendente, Ippolita Sortino (p. 87). Orfana di padre, in tenerissima età, questa avrebbe sposato, poco più che dodicenne, il figlio di un barone netino, Giovan Vincenzo Zarbari (p. 107). Rimasta vedova, nel giro di due anni, per la prematura scomparsa del giovane marito (1561), non avendo ancora messo al mondo dei figli, Ippolita fu nuovamente promessa a «un ricco barone, molto più grande di lei, vedovo e padre di un bambino, originario della città di Piazza», Giovan Francesco Starrabba, al quale portava in dote nel 1563 i feudi aviti di Scibini, Bimisca e Pian di Belludia. Trentatré anni lo sposo, diciotto la sposa (pp. 112-113). Un matrimonio d’affari, si direbbe, ricercato, voluto e, soprattutto, fondamentale per l’ascesa sociale del casato piazzese degli Starrabba.
           Nobili di recente elevazione, gli Starrabba erano baroni di Spedalotto, vicino Aidone, feudo acquistato nel 1557 dai Crescimanno, per 1470 onze. Mentre, nel 1564, entreranno in possesso del feudo di Gatta, presso Piazza, pagando ai Montaperti, che lo detenevano, la somma di 7600 onze (p. 121). Entrambi questi feudi, Spedalotto e Gatta, di cui si era insignito Giovan Francesco, passeranno in progresso di tempo ai Trigona, consorti degli Starrabba.
           Nella seconda parte del libro, assurge per l’appunto a protagonista la figura, fin qui poco nota, di Giovan Francesco Starrabba. A lui si deve la costruzione del grande palazzo di famiglia (foto in mezzo), nell’antico quartiere allora denominato di San Domenico: descritto nel contratto nuziale del 21 gennaio 1563, rogato a Noto, come un «tenimentum domorum proprie habitationis», delimitato da tre strade pubbliche, dove abitavano i suoi genitori, Pietro e Costanza, ancora viventi nel 1572 (p. 114 e nota 341); un palazzo fortificato, seguendo il costume dell’epoca, i cui merli vennero alzati nel 1566 (p. 122). Situato nell’attuale via Umberto, 45, conserva intatti il portale d’ingresso, i mascheroni e le mensole che reggono i balconi.    
          Questo volume si dimostra prezioso anche per la storia di Piazza, risolvendo taluni aspetti poco chiari, se non contradittori, dalla cronologia al contesto politico e sociale, grazie a una paziente e attrezzata opera di consultazione dei tanti riveli o censimenti cinquecenteschi. In particolar modo, analizzando quello nel 1593, si è riusciti finalmente a indicare con precisione l’anno di nascita di un piazzese tanto illustre, il barone Marco Trigona, fondatore, con un suo lascito testamentario, della futura Cattedrale, riedificata sulla precedente chiesa trecentesca. Oltre le date dei biografi (Minacapelli ed altri), bisogna correggere infatti quanto riportato da più parti a proposito della sottoscrizione, nel 1555, dei Capitoli della pace di Piazza, dove venivano segnalati il barone Giovan Francesco Trigona e, erroneamente, quello che si riteneva suo figlio Marco. A quella data quest’ultimo, dovendo essere maggiorenne per firmare, sarebbe nato almeno nel 1537, mentre l’autore circoscrive, fonti alla mano, la sua data di nascita agli anni 1560/1561 (p. 122 e nota 366). Pertanto, quando egli convola a nozze, nel 1574, con Laura de Assoro, ha 13/14 anni, risultando lei, nata nel 1557, più anziana di 3/4 anni. Questo farebbe supporre che si sarebbero potuti sposare per procura.
           Fulminea l’ascesa sociale degli Starrabba, attraverso Giovan Francesco, personaggio che meriterebbe uno studio monografico, brillando di luce propria, accanto e prima di Marco Trigona. Accresciuti i suoi possedimenti feudali, «impegnandosi a pagare somme notevolissime», Giovan Francesco acquisiva dai Ventimiglia nel 1579 la baronia di Regiovanni, con sette feudi e un castello, permutata poi con la contea di Naso, in territorio messinese, comprendente il castello di Capo d’Orlando (pp. 139-141). Fulminea l’ascesa, fulminea la caduta, perché alla sua morte, nel 1592, i suoi figli non poterono evitare la bancarotta, vedendosi costretti ad alienare tutti i feudi di famiglia, gravati da debiti che risultò impossibile soddisfare. Lo spregiudicato Giovan Francesco aveva fatto il passo più lungo della gamba e, a stento, Pietro Starrabba riuscì a riscattare le tenute avite di Scibini e Bimmisca, mentre suo cugino Antonio Trigona, fratello maggiore di Marco, si impossessava dei feudi di San Cosmano e Gatta, insieme alla “honoratissima casa” di Piazza degli sfortunati congiunti (pp. 150-157).
           Questo volume, ricchissimo di dati e suggestioni, ci dà lo spunto per approfondire le nostre conoscenze sulla chiesa di San Vincenzo Ferreri (foto in basso), primo dei sei compatroni della città di Piazza: fondata col contributo degli Starrabba, essendo situata nelle vicinanze del loro palazzo, e della quale certamente essi detenevano il diritto di patronato. E infatti le armi di questa famiglia si ritrovano, oltre che nel timpano dell’abside, in alto, sopra l’altare maggiore, nei due stemmi sul soffitto della chiesa, come pure sul marmoreo monumento funebre di Giuseppe Starrabba, figlio di primo letto di Giovan Francesco: anch’egli conte di Naso, dopo soli otto mesi aveva dovuto rinunciare al titolo ereditato dal padre, adducendo «gravissima infirmitate cum maximo periculo eius vite» ma, in gran parte, per le difficoltà finanziarie e gestionali, in favore del fratello minore Raffaele che, caduto in disgrazia per un’accusa di omicidio, si vide confiscata, nell’agosto del 1594, la contea che fu alienata definitivamente nel marzo del 1595 (pp. 151-155). 

Gaetano Masuzzo

1 La recensione si trova sulla Rivista della Società di Storia Patria della Sicilia Centro Meridionale, Anno VIII, p. 255.
                                                        
2 Antonello CAPODICASA, Il feudo di Scibini nel Cinquecento e le nobili famiglie Sortino e Starrabba, Associazione Studi Storici e Culturali Editore, Pachino (SR), 2021, pp. 239. L'autore, originario di Pachino, da diversi anni si dedica alla ricerca storico-archivistica prevalentemente rivolta allo studio dei territori di Pachino, Portopalo e Noto. Ha pubblicato Il forte di Capo Passero (2007), Torre Fano (2009), Storie di Noto Antica tra XV e XVII secolo (2015), Storia antica di Porto Palo (2016). Attualmente è Presidente dell'Associazione Studi Storici e Culturali di Pachino (SR).

3 Come veniva chiamata Piazza Armerina sino al 1862.

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La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

A sinistra la marionetta di Nòfriu, a destra quella di V'rtìcchiu

Avendo sottomano un vocabolario galloitalico–italiano, mi sono imbattuto in un termine che da bambino lo sentivo pronunciare dai miei genitori. Le occasioni erano le più disparate: da mia madre lo sentivo quando parlava di qualche conoscente dal carattere volubile; da mio padre quando ricordava un cliente particolare in maniera canzonatoria. Il termine che ai tanti giovani piazzesi sarà completamente astruso e incomprensibile, a qualche mio coetaneo lo riporterà indietro di oltre 60/70 anni. La parola è V’rtìcchiu.      

 

La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

 

       Quando, anticamente, si usava dipanare e ridurre le matasse di lana o altri filati in gomitoli per tessere gli indumenti, venivano usati l’arcolaio1 (per dipanare le matasse) e l’aspo2 (per formarle). Questi erano apparecchi di legno o metallo, di uso artigianale o domestico, girevoli su un perno, accanto ai quali c’era l’indispensabile fuso1. Questo arnese era di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate, usato nella filatura per produrre, mediante rotazione, la torsione del filo che si riavvolgeva allo stesso. Poi il filo veniva avvolto alla spola3 (fuso più sottile) per essere inserita nella navetta, idonea a passare i fili della trama tra quelli dell’ordito (parte longitudinale del tessuto) con moto di va e vieni.

        Al fuso per il movimento che faceva gli fu dato il nome di Verticulus4, derivante dal verbo latino “Verto, vertere”5 che, tra i tanti significati, ha quelli di girare intorno a sé, muoversi, scorrere, volgere, voltare, voltarsi.

        Il nome Verticulus si trasformò nell’italiano Verticchio6, nel siciliano Virticchio7 e nel piazzese V’rtìcchiu8.

        Questo movimento dei fusi di girare intorno a sé, di agitarsi, di voltarsi e saltellare per mezzo dei fili ai quali erano appesi, era identico a quello delle marionette di legno e dei pupi siciliani dell’Ottocento e a uno di questi fu dato, appunto, il nome di Verticchio, Virticchio, V’rtìcchiu.

        V’rtìcchiu era un personaggio principale della farsa9 (genere teatrale popolare molto antico, con un esasperato carattere comico, grossolano, stravagante, fantasioso) dell’Ottocento. Compagno di Nofrio10 o Nofriu11, V’rtìcchiu era un personaggio maschile in paggio12 (senza armatura) dal viso glabro e con l’occhio sinistro chiuso. Alto, dal piede al ferro, 149 cm, indossava una camicia bianca, la cravatta rossa (nella foto chiara), la giacca blu (nella foto avano chiaro), i pantaloni grigi (nella foto celesti) e il berretto di pelliccia. Testa, busto, gambe, cosce, piedi e mani erano di legno, le braccia erano di stoffa.

        A Piazza col termine V’rtìcchiu (in gallo-italico V'rtìcch8) veniva indicato, oltre al pupo siciliano, il ticchio, la convulsione, l’isterismo, un bambino, un moccioso, un piccoletto, uno smilzo, un mingherlino13.

                                                                                                                         Gaetano Masuzzo

 

1 https://pellis.filologicafriulana.it/fotografie/strumenti-del-lavoro-arcolaio-fuso

2 https://www.treccani.it/vocabolario/aspo/

3 https://www.treccani.it/vocabolario/spola/#:~:text=fare%20la%20s.%2C%20andare%20avanti,tra%20casa%20e%20ufficio.

4 https://sicilianonuduecrudu.home.blog/2019/10/16/abballavirticchiu-le-origini/#:~:text=Abballavirticchiu%20%C3%A8%20una%20parola%20siciliana,alle%20articolazioni%20del%20corpo%20umano).

5 Campanini - Carboni, Vocabolario Latino-Italiano, Paravia, Torino 1961, p. 738.

6 https://www.treccani.it/vocabolario/vertecchio/

7 Cultura Italia, http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_88381   

8 Vocabolari gallo-italico/italiano: Gioacchino Fonti 1990, Mario Adamo 2018. In quello di Remigio Roccella, 1970, p. 287, troviamo solo “V’rtìcch, s.m. convulsione, isterica”.

9 https://it.wikipedia.org/wiki/Farsa_(genere_teatrale)

10 Cit., Cultura Italia.

11 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, pp. 8, 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

12 https://it.wikipedia.org/wiki/Opera_dei_pupi : Il pupo e il puparo: caratteristiche generali.

13 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, p. 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

 

 

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I cutupìddi

                                                     I CUTUPÌDDI

        La parola cutupìddi ci riporta indietro alla nostra infanzia (parlo per i nati negli anni Cinquanta e/o Sessanta), quando alla richiesta piena di fervore e speranza «papà che purtàtu?» lui, a tamburo battente, rispondeva con nonchalance «cutupìddi!». E tutto finiva lì.
L’altro giorno un amico coetaneo, con le mie stesse manie e curiosità, mi ha chiesto cosa fossero in realtà i cutupìddi, oltre al comune intendere di «nulla di nulla» o «poco o niente».
Tornato a casa cu pùl’sg ‘ntèsta, a chi potevo rivolgermi, visto che il mio caro vocabolario in gallo-italico di G. Fonti non mi rispondeva e non mi aiutava? All’immenso zio internet che, se usato con intelligenza e al momento giusto, ci aiuta (quasi) in tutto. Avviata la ricerca mi imbatto nel sito di "siciliafan.it" (a fondo pagina). Ci clicco e mi appare l’articolo di Nando CIMINO, Teniamoci leggeri mangiando cutupiddi, del 23 aprile 2015, per la rubrica CONOSCERE LA SICILIA.
Eccovelo: «Non fosse altro che per la loro scarsa consistenza mi verrebbe da dire che per mantenersi leggeri non sarebbe male mangiare cutupiddi. Non cercatela nei vocabolari; difficile trovarla anche lì questa “strana” parola della nostra lingua siciliana che ancora oggi continuiamo però ad usare con una certa frequenza. La adoperano soprattutto gli anziani, ma non solo loro, quando se gli si chiede cosa hanno mangiato, per non fartelo sapere o perché son veramente a stomaco vuoto, ti rispondono cutupiddi; come a voler dire, poco o niente. Ma a parte l’uso comune che si fa di questo vocabolo in realtà il cutupiddu esiste davvero; infatti in talune località dell’entroterra siciliano, anche se ormai pochi probabilmente se ne ricordano, con questo nome pare venissero chiamati i porcellini d’india (nella foto). Ma il termine cutupiddu o cutupiddru, ha anche un altro significato, infatti in altre zone della nostra Sicilia, stava invece ad indicare gli escrementi delle capre, (alias zzòddiri). La parola comunque, soprattutto nel primo caso, potrebbe esser stata oggetto, ma sono solo supposizioni, di una qualche mutazione “genetica”; c’è infatti chi sostiene possa essere scaturita dal fatto che i porcellini d’india venissero paragonati a dei piccoli topi ovvero tupiddri, piuttosto che surciteddi come in genere si dice. Sarà vero?
        Il porcellino d’india, che tutti sappiamo essere comunque commestibile, pare sia buono arrosto o per il ragù, in realtà per le sue piccole dimensioni non è certo animale da soddisfare il nostro appetito; ecco quindi che mangiare cutupiddi, nel tempo potrebbe esser stato associato al fatto di aver mangiato poco o niente. Altrettanto dicasi allorché, volendo dare del poco intelligente a qualcuno, lo si definisce testa di cutupiddu, paragonando il suo cervello a quello, ovviamente piccolo, di questo simpatico animale o, ancor peggio, ad un ricettacolo di escrementi. Con questa mia ricostruzione, non facile e certamente opinabile, spero di aver soddisfatto la curiosità di tanti; ovviamente se sapete di più e di altro informateci. Per quanto riguarda poi l’aspetto culinario ne faccio personalmente a meno; augurando lunga vita al  povero indifeso porcellino d’india alias… forse cutupiddu!».

Tratto da <https://www.siciliafan.it/teniamoci-leggeri-mangiando-cutupiddi-di-nando-cimino/?refresh_ce> ultima lettura 21/10/2021.

cronarmerina.it

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Monte Naone o Navone?

MONTE NAONE o NAVONE?

Il 29 agosto 2021, mentre si elencavano le attività nel Gruppo Archeologico “L. Villari” di Piazza Armerina, mi sono inserito con questo breve intervento:

«Per quanto riguarda le attività del Gruppo Archeologico, mi fa piacere ricordare di essere stato coinvolto, dal 2018, in diverse passeggiate istruttive per le vie della città come “cicerone nostrano”. Niente di eccezionale, ma ci è servito per conoscere un po’ la storia, anche quella con la esse minuscola, del nostro centro abitato. Accanto agli avvenimenti memorabili ho simpaticamente inserito anche aneddoti personali, che hanno coinvolto tanto i compagni di viaggio. Così facendo, abbiamo conosciuto un po’ meglio i nostri beni storici sparpagliati per le vie della città, quanto meno li abbiamo individuati in questo grande museo a cielo aperto, come è avvenuto con un altro reperto, oltre ai 5 presenti in questo sito (il chiostro del Collegio dei Gesuiti), di cui ho parlato l’altro giorno durante la commemorazione dello storico piazzese generale Litterio Villari. Si tratta della scultura in pietra della Culòvria cavalcata da un putto, posta in quell’angolo a destra, proveniente dalla fontana/abbeveratoio ottagonale che c’era prima, al posto del distributore di benzina alla Taccura.  La Culòvria, grossa e lunga biscia non sempre velenosa di acqua dolce, in italiano Còlubro lacertino, è stata volutamente confusa, nei racconti spaventosi degli anziani ai nipoti, con la Biddìna, termine arabo che indica un mostro terribile con bocca e occhi rossi, un piccolo drago o serpente d’acqua di diversi metri, con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Concludo, prima con l’augurio di ripetere queste simpatiche esperienze al più presto, poi precisando che il sito archeologico di Monte Naone, chiamato nei secoli anche Anaor, Avator, Anator, Nonimna, Noymna, Nomai, Naona, Nauno, Nauni, Naonis, Nacone, fu chiamato così sino al 1927 quando, per la legge fascista di quell’anno, avente come fine l’italianizzazione della toponomastica con l’intento di diffondere la lingua italiana, intervenendo così sull'uso del dialetto di gruppi linguistici con diversa madrelingua, gli venne dato quello di Navone. Quindi, il nostro “Naone” fu inteso come termine “dialettale o straniero” da tradurre con l’italiano “Navone”, che nulla aveva a che fare con la storia e la geografia del sito. Sarebbe auspicabile, quindi, riproporre sempre l’antico nome di “Naone”».
Prof. Gaetano Masuzzo

cronarmerina.it


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Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

Il volume Super Physicam Aristotelis del 1494, Biblioteca Comunale, Piazza Armerina

Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

In una teca della “Mostra del Libro antico” presso la Biblioteca Comunale “Alceste e Remigio Roccella” di Piazza Armerina, fa bella mostra, tra i tanti volumi esposti, un volume che attrae subito l’attenzione dei visitatori, sia per l’antichissima rilegatura “in mezza pelle su assi di legno” dove sono rimaste, nel margine di dx, persino gli incavi dov’erano poste due cerniere, che dovevano servire a tenere chiuso il volume agganciandosi con quelle sottostanti; sia per l’anno “1492” scritto a mano nella parte superiore della copertina, poco sotto quello che sembra il titolo abbreviato o la categoria archivistica in caratteri gotici medievali: "Och.rz.fi.lib.phico". A questo punto ci viene in aiuto la didascalia “d” che accompagna il volume nella teca n. 3: si tratta del volume di Guillelmus de Ockam, Super Physicam Aristotelis, Correxit Marcus Alexandreus, Bologna, Benedetto Faelli, 13 dicembre 1494, legato con altri due incunaboli e alcune pergamene scritte, provenienti da San Pietro di Piazza, cioè dalla chiesa e convento dei Francescani Osservanti.

Cerco di chiarire meglio: Marcus Alexandreus, alias Marco da Benevento (1460/65-1521/25)¹, monaco benedettino dei celestini, faceva stampare a Bologna, nel dicembre del 1494, il commento di Guglielmo di Ockham alla fisica aristotelica sulla natura dal titolo Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis, per dargli il dovuto rilievo riproponendolo (correxit) dopo tanto tempo. L'edizione era dedicata al filosofo e medico Alessandro Achillini (1461/63-1512), suo insegnante a Bologna, dal quale Marco dichiara di essere stato spinto a riportare alla luce la "sottilissima" fisica del francescano inglese Guglielmo di Ockham², un filosofo troppo a lungo confinato nelle tenebre. In questo modo Marco confermava la sua volontà di percorrere una diversa via filosofica, passando dalla tradizionale formazione scolastica alle dottrine logiche “moderne” sostenute dai “nominalisti” di Oxford³ un secolo e mezzo prima. Per quanto riguarda l’anno 1492 scritto sulla copertina di legno, si può supporre che sia stato un errore nella lettura dell’anno riportato, forse, all’interno, durante una delle tante ricollocazioni cronologiche o disciplinari.

Cercando notizie su Guglielmo di Ockham, ho trovato che il filosofo francescano inglese fu di ispirazione a Umberto Eco per il personaggio di Guglielmo da Baskerville, protagonista del romanzo Il nome della rosa, interpretato da Sean Connery nell'omonimo film del 1986 per la regia di Jean-Jacques Annaud. Guglielmo di Ockham, citato spesso da Guglielmo di Baskerville, che nel film era un eruditissimo frate francescano inglese del XIV secolo, consigliere dell'Imperatore e con un passato come inquisitore, veniva considerato insieme a Tommaso d'Aquino e a Giovanni Duns Scoto, come uno dei più importanti esponenti della filosofia medievale, e come il suo omonimo letterario fu vittima della peste4. Guglielmo di Baskerville alla fine del libro, e del film, "chiede di poter leggere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, unica copia esistente in tutto il mondo. Jorge acconsente, ma Guglielmo si mette un guanto, poiché sa che le pagine del libro sono avvelenate. Il mistero è così chiarito: Jorge era il colpevole di quelle morti ed è stato lui ad avvelenare le pagine del libro, in modo che chiunque le leggesse trovasse una morte certa. Questi, capendo di essere stato scoperto, si dà alla fuga, portando con sé il libro e venendo inseguito dai due monaci. Guglielmo gli chiede perché abbia fatto tutto questo e Jorge rivela di aver sempre avuto in odio il libro di Aristotele, in quanto il riso, in esso trattato, uccide la paura e senza la paura non può esserci fede in Dio: se tutti, infatti, apprendessero dal libro che è possibile ridere di tutto, anche di Dio, il mondo precipiterebbe nel caos"5.

¹ <https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-da-benevento_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 11/9/2021).

² Occam (o Ockham), Guglièlmo di. - Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° - m. 1349 o 1350). Entrato nell'ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni (<https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-di-occam/> u. c. 11/9/2021).

³ Guglielmo di Ockham – Manuale di storia della filosofia medievale, www3.unisi.it (u. c. 11/9/2021).

4 <https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_da_Baskerville> (u. c. 11/9/2021).

5 <https://it.wikipedia.org/wiki/Il_nome_della_rosa_(film)> (u. c. 19/9/2021).

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Origini di Piazza per il Villari

Le origini della città di Piazza Armerina secondo il generale/storico Litterio Villari:
                                                    "LE TRE SEDI"

Buona sera a tutti i presenti. Mi sento molto lusingato per essere stato invitato dal prof. Salvatore Lo Re, a parlare sulle origini di Piazza secondo il generale Litterio Villari a cent’anni dalla sua nascita, quindi nato nel 1921, perciò coetaneo di mio padre Gino, il quale mi raccontava che nel 1943 tutti erano convinti che la loro classe, quella del ’21, avrebbe risolto vittoriosamente la guerra.

Prima di tutto desidero cogliere l’occasione per ringraziare, ancora una volta e attraverso il figlio Pier Luigi, l’autore del libro che mi ha fatto scoprire innumerevoli notizie su Piazza e i suoi abitanti, lasciandoci in eredità un lavoro di inestimabile valore, da considerare in futuro come pietra miliare per tutti coloro che vogliono avvicinarsi alla storia locale come ho fatto umilmente io.

Poi, per non venire meno alla mia attitudine di cicerone amatoriale, non posso non accennare ai 5 reperti rari e prestigiosi sotto gli occhi di tutti in questo seicentesco chiostro dei Gesuiti. Magari si viene qui per tante ragioni e non si conosce né la loro presenza né il loro valore. La nostra Piazza oltre ad avere, da ieri, un Museo al chiuso, è da sempre un Museo a cielo aperto, basta osservarlo, conoscerlo, apprezzarlo e tutelarlo.  
-Qui si trovano gli unici due stemmi reali esistenti a Piazza, risalenti ai primissimi anni del Cinquecento e che si riferiscono a re Ferdinando II d’Aragona il Cattolico, quello che sovvenzionò la scoperta dell’America qualche anno prima; li troviamo in marmo lungo questo portico.
-Tra i due stemmi c’è una lapide commemorativa in marmo del 1731 e si riferisce al 2° Santo Compatrono della Città, dei sei complessivi, il teatino Sant’Andrea Avellino. Il Santo e l’altro teatino, San Gaetano di Thiene, altro compatrono della città, sono raffigurati nelle due statue ai lati del portone d’ingresso della chiesa dei Teatini.
-Sopra la porta d’ingresso alla biblioteca si può notare la grande epigrafe in marmo che riporta in latino una Bolla Papale del 1618, che comminava persino la scomunica a chi avesse causato dei danni alle migliaia di volumi dei frati francescani delle chiese di San Pietro e di Santa Maria di Gesù.
-Per finire, vi segnalo, nascosti qui in un angolo, tra l’oblio e il disinteresse, i resti del portale d’ingresso della seicentesca chiesa di Sant’Agata con relativo monastero delle Benedettine, abbattuta definitivamente negli anni Trenta per far posto al famoso Piano Balilla per l’addestramento, il sabato, dei giovani fascisti.    

Adesso passo al motivo per cui sono qui.

Il generale Litterio Villari in tutte le quattro edizioni (1973, 1981, 1987 e 2013) della sua opera “La Storia della città di Piazza Armerina”, per quanto riguarda le origini della nostra Città, si rifà grosso modo alle tesi di 8 storici precedenti, di cui 6 piazzesi: Francesco Negro, Antonio il Verso e Francesco Cagno del Cinquecento, Giovanni Paolo Chiarandà e Marco Alegambe del Seicento e il sacerdote Filippo Piazza del Novecento e degli altri 2 non piazzesi, il netino Rocco Pirri del Cinquecento/Seicento e il catanese Vito Amico del Settecento.

Eccovi brevemente la sua tesi alla quale dedica, nell’ultima edizione, tutto il I Capitolo di ben 74 pagine per parlarci delle 3 sedi originarie di Piazza. Sintetizzando il capitolo, egli pone le più remote origini dei nostri diretti antenati, tra il XIII e il X secolo a.C., quando i Sicani, sospinti dai Siculi dalla Sicilia orientale verso quella centro occidentale, diventano i più antichi abitatori nelle nostre contrade dell’alta valle del fiume Gela e di quella del fiume Braemi.
Essi praticano l’agricoltura e la pastorizia nelle loro piccole città, tra queste c’è quella che si può ritenere la culla delle nostre origini e, quindi, la PRIMA SEDE, Ibla, in cima al Monte Naone (mai da lui chiamato Navone), a 10 km a sud-est dall’attuale Piazza, verso Barrafranca, a quasi 750 metri sul livello del mare, monte considerato dall’archeologo Orsi «una vera piramide isolata».

È chiamata Ibla per un tempio dedicato a una dea adorata su queste colline e per il nome del fiume che la fiancheggia a nord, il Braemi, anticamente chiamato Ibleo. Lo stesso nome del Monte, Naone, in greco vuol dire “tempio”, quindi potrebbe essere chiamato Monte del Tempio. A questo nome è aggiunto l’appellativo Erea, perché situata sui Monti di Hera, dove viene adorata la dea indigena Hera.
Nei secoli VII e VI a.C. la piccola città di Ibla respinge i tentativi di penetrazione dei Rodio-Cretesi, nel V secolo a.C. subisce assedi dal tiranno di Gela, rinuncia alla lega dei Siculi di Ducezio e si difende dagli Ateniesi; nel 280 a.C. assiste alla campagna campale fra Iceta e Finzia nell’ampia conca del fiume Braemi, si ribella per l’indipendenza contro i Romani nel 212 a.C., ma poco dopo la si ritrova tra le città decumane visitata dai sacerdoti di Delfi, probabilmente perché vi si adora la dea Artèmide, dea della caccia e della foresta. Intorno all’anno 100 a.C., la reazione dei Romani alla seconda rivolta delle Guerre Servili, distrugge tutte le città dell’acrocoro ereo, compresa la nostra Ibla, la cui popolazione è costretta a trasferirsi dall’alto della montagna in un piccolo insediamento rurale nella zona pianeggiante sottostante, verso il fiume Gela che scorre a circa 2 km verso est. Qui si trova la SECONDA SEDE.

Da questo momento le notizie sulla Ibla Interna diventano sporadiche e incerte: Strabone e Plinio, nei primi decenni dell’era cristiana scrivono di Ibla solo per ricordare il suo squisito e famoso miele; nel II secolo d.C. Tolomeo, nella sua Geografia, parla di una Ibla al centro della Sicilia, vicino a Enna e a nord della Gela mediterranea chiamata Filosofiana, poi ritrovata nell’odierna contrada Sofiana.
Nel frattempo sul Monte Naone, intorno al tempio, rimangono poche case, forse abitate da sacerdoti e inservienti, che costituiscono il nucleo di un borgo bizantino, che gli Arabi, secoli dopo, chiameranno Anaor, nel rispetto della toponomastica precedente.
Nel VI secolo d.C. Ibla Erea o Minore, come la chiamava il geografo greco Stefano Bizantino, per distinguerla dalla Maggiore nei pressi dell’attuale Paternò e dalla Megarese nel golfo di Augusta, è chiamata in greco Ibla Elattòn cioè “minore”. Lo stesso geografo greco quando trascrive un antico passo attribuito a Filisto, storico siracusano vissuto a cavallo dei secoli V e IV a.C., lascia notizia di tre antichissime Ible, tra le quali una di nome Ibla STIELA. Alcuni decenni fa dei tombaroli hanno rinvenuto sul Monte Naone, in due distinti periodi, delle monete dove si leggono STIA e STI risalenti all’ultimo decennio del V secolo a.C., che dimostrerebbero, appunto, l’occupazione del sito in quel periodo.

Nel IX secolo, al tempo della conquista araba, in uno scritto dello storico arabo ‘Ibn’al’Atir, troviamo la città di Ab.là tra le città che si ribellano contro gli Arabi nell’860, e la conferma della sua esistenza si trova nella carta geografica dell’arabista palermitano Michele Amari e del geografo francese Auguste Henri Dufour, comparata con quella araba di Idrisi dell’XI secolo. Ab.là è situata a nord di Garsiliato e a 15 miglia a est di Pietraperzia, quindi ai piedi di Monte Naone, nella nostra contrada Casale e attigua alla Villa Romana, nei pressi del fiume Gela, a 476 metri sul livello del mare.

Inoltre, nell’edizione ottocentesca di Michele Amari il nome del centro abitato è trascritto tale e quale si trova nel testo arabo di Idrisi del 1160, ‘Iblatasah, letteralmente Ibla Fresca che identificherebbe l’Ibla Gereate o Minore, in greco Ibla Elatson, di Pausania, pertanto ‘Iblatasah sarebbe la traduzione in lingua araba di Ibla Elatson.
Quindi, durante il periodo arabo e all’arrivo dei Normanni nel 1061 esiste questo villaggio o borgo fortificato chiamato ‘Iblatasah, nei pressi della Villa Romana.
Due anni dopo, nel 1063, i Normanni sconfiggono a Cerami i Saraceni. È in questa occasione che il pontefice Alessandro II consegna uno stendardo di seta al cavaliere lombardo Meledio come vessillo di guerra da consegnare al conte Ruggero I d’Altavilla. Tredici anni dopo, nel 1076, truppe gallo-italiche o lombarde, originarie del nord-ovest dell’Italia (provenzali, liguri e monferratini), scendono in Sicilia per combattere i Saraceni assieme al Gran Conte per spirito di avventura e per possedere terre e castelli, occupando così i Monti Erei nei posti chiave, per impedire la riunione delle forze arabe di Noto con quelle di Butera e di Kars Jani. Proprio sulle alture intorno all’araba ‘Iblatasah, ad Aidone e a Mongiolino nei pressi di Mineo, il Conte vi distacca un raggruppamento lombardo per intervenire tempestivamente, se allertate, verso Catania, verso Gela o verso Noto. Così nascono gli accasermamenti di Rossomanno, Mongiolino, Rambaldo, Polino, Comicino, Eliano, Garsiliato e Aidone, che danno origine alla dizione di “Monti della Lombardia”, mentre l’araba ‘Iblatasah è chiamata con disprezzo il “Casale dei Saracini”.
Dopo quasi un ventennio il conte Ruggero, avendo conquistato Butera con l’ausilio delle truppe lombarde, dona il Vessillo, ricevuto nel 1063, agli abitanti dei borghi lombardi che lo custodiscono in quello più importante e sede del comando di Rambaldo, a un chilometro verso nord dall’odierna Piazza. Inoltre, il Conte riceve nel 1089, insieme alla terza moglie Adelasia dei Marchesi del Vasto Monferrato e di Savona, rinforzo di cavalieri provenienti dal Piemonte Meridionale e dalla Liguria. È in questo periodo che il Conte decide di incrementare gli accasermamenti di soldati lombardi, con formazioni di vere e proprie colonie provenienti dalla Lombardia, nei borghi fortificati sopracitati, per meglio controllare la popolazione araba e greca.
Alla fine dell’XI secolo (per essere chiari tra il 1090 e il 1099), ‘Iblatasah diventa il borgo guida e capoluogo, dando il nome a tutta la circoscrizione comprendente la vera e propria ‘Iblatasah e tutti gli altri casali arabi e borghi lombardi circostanti. Con l’arrivo dei coloni lombardi e di un’imponente massa di popolazione dal “Tema Bizantino”, inizia il processo di italianizzazione e rilatinizzazione e la voce araba ‘Iblatasah è grossolanamente tradotta, con la mediazione del greco medievale Platza, nel latino medievale Plăcea o Plăcia che troviamo in alcuni diplomi di quel periodo.
Dopo la morte del conte Ruggero nel 1101 e dopo la reggenza della di lui vedova, Adelasia, diventa, nel 1112, re il loro figlio Ruggero II, che tenta in tutti i modi di affezionare alla dinastia normanna le popolazioni arabe, greche e italiche, contro la tendenza della nobiltà, prevalentemente normanna, che aspira alla completa indipendenza nei feudi e nei castelli. Durante i decenni successivi molti feudatari delle Puglie e della Sicilia si sollevano compatti contro il successore di Ruggero II, il figlio Guglielmo I il Malo. Nel governo dei Lombardi, invece, dopo Enrico Aleramico, cognato e genero del Gran Conte, succede il secondogenito di Enrico, il conte Simone. Un figlio illegittimo del conte Simone, Ruggero Sclavo, e il figlio illegittimo di Guglielmo I, Tancredi d’Altavilla, nel 1160 guidano la ribellione delle colonie lombarde di Piazza e Butera contro il potere del Re. La ribellione di intere province del regno è il frutto del desiderio di autonomia, della voglia di aver più peso sugli affari di Stato, dell’orgoglio di schiatta e della politica di concessione da parte del sovrano di non poche libertà agli Arabi, per essersi dimostrati dei sudditi assai fedeli e utili all’amministrazione dello Stato. Tali motivi sollecitano le preoccupazioni e le invidie dei grandi feudatari e delle colonie lombarde, ma le ribellioni, anche se prontamente domate, portano a una congiura di corte e all’insurrezione che sfocia nel massacro della maggior parte degli Arabi delle nostre zone. Tale grave avvenimento convince il Re a piombare, nella primavera del 1161, con un esercito di Normanni e Arabi, prima su ‘Iblatasah e i casali lombardi circostanti, saccheggiandoli e distruggendoli totalmente, poi su Butera, assediandola e venendo a patti.
Ruggero Sclavo, Tancredi d’Altavilla e gli altri insorti lombardi ottengono salva la vita ma devono emigrare al di là dello stretto. Tornato a Palermo il Re costituisce due corpi di spedizione per combattere i ribelli che, nel frattempo, erano insorti nella Terra di Lavoro, in Calabria e in Puglia. In un corpo di spedizione si arruolano i volontari lombardi di Piazza, che si coprono di gloria a Taverna, vicino Catanzaro. Questo glorioso comportamento convince il Re a emanare il decreto di costruzione di una loro nuova città a spese dello Stato e con privilegi demaniali. A questo punto il Villari riporta quello che aveva scritto secoli addietro il concittadino storico gesuita Chiarandà: “nel 1163 fu dato incarico al baiulo e ad altri 8 deputati di costruire una nuova città con le stesse pietre della città distrutta, sopra il Colle oggi detto Monte, con lo stemma aleramico condiviso con la città di Savona”. Che sarebbe la TERZA e attuale SEDE.
Non posso non concludere esprimendo qualche perplessità. Non è chiaro quale fosse questa città distrutta: l’araba ‘Iblatasah altrimenti chiamata Casale dei Saracini, a 3 km di distanza da quella nuova? Il borgo sede del comando lombardo, Rambaldo, a 1 km a nord dalla città nuova? O, come pensano alcuni, si trovasse già dove oggi si trova il quartiere Monte, attorno a un piccolo castello, il “valido fortilizio” di cui parla Idrisi, dove si svolgeva “un mercato molto frequentato” per vendere o barattare le abbondanti produzioni del suolo nel piano sottostante, chiamato in greco Platus-Plateia che vuol dire esteso, largo, vasto, piano di uso pubblico, dal quale deriverebbero i nomi trovati nei diplomi: Platea del 1122, Platza del 1142 o Plàcea del 1148-1151, cioè Piazza? Spiegazione quest’ultima condivisa e avallata dal prof. Ignazio Nigrelli, l’altro grande storico piazzese coevo al Villari, che ipotizzava anche che il sito della primitiva Piazza potesse trovarsi a Rambaldo.
Soltanto le fonti storiche lette con cura, i nuovi studi e, soprattutto, i nuovi ritrovamenti archeologici, ci potranno aiutare a districare questi nodi, e vi posso confermare che io e il professore Salvatore Lo Re ci stiamo provando da qualche anno. Purtroppo il Covid ci ha solamente rallentati ma non fermati, quindi arrivederci a presto e grazie.

Prof. Gaetano Masuzzo

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Edicola n. 72

L'Edicola n. 72 del mio censimento è posta dentro una cornice di tronchi d'albero, a sua volta circondata abilmente da sassi e lastre di pietra. La statuetta inserita tra pietre di varia grandezza è dell'Immacolata Concezione. L'edicola si trova in una proprietà privata, per questo potrò indicare la località e il nome dell'artigiano dopo la sua esplicita volontà, intanto gli faccio i miei complimenti.

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Edicola n. 71

L'Edicola n. 71 del mio censimento è anche una piccola cappella e si trova presso l'Azienda Agrituristica Torre di Renda, a 3 km da Piazza Armerina. L'azienda gestita dai fratelli Filippo e Ignazio Golino, oltre a diverse camere e a una grande sala ricevimenti comprende una piscina, un gran bosco naturale e un magnifico panorama che si estende dalla città al suo territorio verso nord. L'edificio principale, a pochi passi dalla cappella/edicola, è un'antica costruzione del Seicento, divenuta in seguito la residenza estiva del VI vescovo della Diocesi di Piazza Armerina, mons. Mariano Palermo (1825-1903). La cappella è dedicata al Crocifisso, in legno, che è disposto sulla parete frontale; un ginocchiatoio si trova ai piedi dell'altarino, il tutto in un ambiente semplice e impeccabile. 

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Un mulino millenario

Gli archi a sesto acuto del mulino di Donna Guerrera, Piazza Armerina

Nel cerchio l'anno 1829 nella vasca di raccolta dell'acqua del mulino

Il mulino millenario

Il mulino di Donna Guerrera (o Guerriera), ancora esistente, forse ancora per poco viste le pessime condizioni (vedi foto), è situato a 2 km a sud-est dal centro abitato di Piazza Armerina, accanto alla sede stradale della SP15 Piazza-Barrafranca, lungo la valle tra il colle di Piazza Vecchia a nord e il monte Mancone a sud. Il mulino, come i tanti esistenti lungo il corso fluviale, veniva alimentato dal vicinissimo fiume Gela che, in questo tratto iniziale, è chiamato “fiume di Giozzo”, dalla contrada piazzese da cui nasce, posta sui monti Erei a ca. 7 km a nord-est di Piazza. Per quanto riguarda il nome, il Villari ci ricorda che «la contrada “Bosco Blandino” e l’annesso mulino di “Donna Guerriera” dovettero prendere tali denominazioni dalla contessa Flandina – figlia del conte Ruggero – che ne ebbe il possesso subito dopo la conquista normanna». Questo fa supporre che potesse essere già esistente al tempo degli Arabi, i quali utilizzavano nell'architettura gli archi a sesto acuto presenti nel nostro mulino. Nel Trecento il mulino con gli altri in territorio di Piazza, erano del milite Ugone Lancia, signore di Castania e Castelminardo. Negli ultimi anni del XIV secolo, il mulino apparteneva alla Commenda dei Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni Battista di Gerusalemme poi, nel 1399, in seguito ad una transazione, ratificata da re Martino il Giovane, col cavaliere e commendatore gerosolimitano Bernardo Villardita, barone di Imbaccari, Rachali e Censi di Piazza, divenne di proprietà del barone. Assieme al mulino, al barone andarono l’orto accanto e il feudo di Bessima, in cambio del canone in orzo e frumento a lui dovuto annualmente dalla Commenda. In seguito, il mulino seguì la storia della baronia dei Salti dei Mulini di Piazza, prima di proprietà di un ramo dei Villardita imparentati con i de Modica (o Moac), poi con i de Barberino (o Barbarino), i de Assaro, i Platamone, i Crescimanno e, col matrimonio della figlia di Pietro Crescimanno di Bessima, Angela Maria, con un Trigona, alla fine del Settecento, divenne di proprietà di Onofrio Trigona barone dei Salti e di Demani. Un dettaglio che non è sfuggito è l’anno 1829, scolpito come un sigillo, su una parete della vasca/torretta di raccolta dell’acqua, forse testimone di un restauro borbonico (foto in basso).

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Fontanella Largo Capra Aidone/n. 24

La Fontanella n. 24 si trova ad Aidone nel Largo Capra accanto al n. 5. Il largo prende il nome dal palazzo abitato da una delle famiglie più importanti di Aidone, la famiglia Capra, ed è situato alle spalle dell'edificio di fronte a quello che ospita il Municipio Comunale in piazza Umberto I. Alzando lo sguardo dalla fontanella, troviamo un bel balcone barocco, sovrastato dal blasone della famiglia Capra. Come si vede dalla foto, la fontanella molto antica, almeno dei primi decenni del secolo scorso, è in disuso, arrugginita e abbandonata. Non rimane che girarsi indietro, per guardare il bellissimo panorama che si può ammirare proprio di fronte al palazzo. 

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