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Cronarmerina - Marzo 2018

Il Re della lapide

Re Ferdinando I delle Due Sicilie (1751-1825)

Dopo aver parlato della lapide che ricordava la venuta di re Ferdinando I delle Due Sicilie a Piazza nel maggio del 1806, mi sembra giusto descrivere cosa accadde dopo. Nel 1814 Ferdinando, che sin da giovane fu chiamato Re Lazzarone¹, tornerà dal lungo esilio di otto anni in Sicilia e assisterà all’allontanamento a Vienna della moglie Maria Carolina, dietro pressioni inglesi perché accusata di complotto contro l’Inghilterra. Giunta a Vienna, Maria Carolina morirà nel settembre del 1814. Dopo due mesi il Re si risposerà con la duchessa siciliana, di Siracusa, Lucia Migliaccio (1770-1826) vedova del Principe di Partanna, e nel 1815, grazie al Congresso di Vienna, rientrerà in possesso del Regno di Napoli. Nel 1816 Ferdinando istituirà il Regno delle Due Sicilie diventando Ferdinando I delle Due Sicilie e, nel 1820, dietro le pressioni dei fermenti carbonari-antiborbonici e dei moti in Europa, sarà costretto a firmare la Costituzione che sarà ritirata subito dopo la repressione dei moti carbonari. Ferdinando morirà nel 1825 a 73 anni e sarà seppellito nella chiesa di Santa Chiara a Napoli, sepolcro ufficiale dei Borbone delle Due Sicilie. Se questo Re Borbone è stato stenuo difensore dell’assolutismo monarchico, va ricordato il suo proficuo adoperarsi nel campo culturale: nel 1778 promuove la nascita della Real Colonia di San Leucio, esperimento di modello sociale per gli operai della seta a pochi chilometri dalla reggia di Caserta che divenne, in seguito, un polo di eccellenza della produzione tessile, nel 1787 inaugura la Reale Accademia Militare della Nunziatella, nel 1805 dà un forte impulso all’università di Palermo e qui fa costruire un osservatorio astronomico sul tetto del Palazzo Reale, riorganizza l’università di Napoli dando anche una decisiva spinta agli scavi di Ercolano, Pompei e alla costruzione della reggia di Caserta, opere avviate da suo padre, Carlo I re di Napoli e Sicilia e III re di Spagna (Madrid 1716-1758).

¹ <<Personaggio molto particolare, Re Ferdinando IV di Borbone, famoso per le sue “incursioni” nei quartieri popolari, travestito e irriconoscibile. Leggenda vuole che il Monarca si divertisse molto durante queste sue serate nei quartieri di Napoli. Il suo maggior sollazzo sarebbe stato quello di prendere in giro la gente che incrociava per strada, farla oggetto di sonore pernacchie. Una notte cominciò a menare per il naso un soldato di guardia, tanto che la stessa sentinella, fortemente risentita, gli puntò contro il fucile. Il Re si salvò grazie all'intervento del Principe Sannicandro che lo accompagnava: il nobiluomo ed educatore del Monarca avvertì urlando la guardia che si trovava di fronte all'irriconoscibile Sua Maestà. La risposta de soldato fu rapida e lapidaria: “Ma i re non fanno simili porcherie!”.
Re Ferdinando ebbe un rapporto di amore-odio con la Sicilia. L'Isola fu suo rifugio durante l'ondata napoleonica salvando la sua vita e l'ordinamento borbonico del Meridione. In quel periodo di esilio, Ferdinando continuò con il suo stile di vita, fatto di battute di caccia, sua grande passione, lunghe cavalcate. Un legame forte con la Sicilia lo suggellò grazie al matrimonio morganatico con Lucia Migliaccio, Duchessa di Floridia, vedova del Principe Benedetto Grifeo di Partanna. Re Ferdinando rimase in Sicilia dal 1798 al 1801 e dal 1806 al 1815. Durante una battuta di caccia nella Tenuta del Cappellaro, Sua Maestà si ritrova vicino a uno dei caratteristici ovili siculi, con recinti delimitati da bassi muretti in pietra e basse casupole per la lavorazione del latte che facevano anche da momentaneo riparo per i pastori. Il Re giunge nel momento in cui tre pastori stanno facendo la ricotta dal latte ricavato dalle pecore. Ferdinando ha fame dopo la prima fase mattutina della caccia, prende una pagnotta offerta dai tre poveruomini, la taglia, ne toglie la mollica e con la crosta restante ne ricava una specie di scodella dove versa la ricotta ancora calda. Rifiuta le posate porte con immediatezza dai suoi inservienti. In questo modo il Sovrano costringe, indirettamente, cavalieri e nobiluomini del suo seguito a mangiare nello stesso modo, con le mani (se lo fa il Re, gli altri non possono agire diversamente). Durante questo pasto Ferdinando decide improvvisamente di dimostrare la sua riconoscenza verso i pastori dicendo: “Cu' non mangia ccu so' cucchiaru, lassa tuttu 'o zammataru” ("Chi non mangia con il suo cucchiaio -con le posate- deve lasciare tutto allo zammataru, al pastore"). Nessuno aveva utilizzato le posate, quindi un patrimonio di forchette, coltelli e cucchiai in argento finirono nelle mani dei pastori, arricchitisi così in pochi minuti. Da sottolineare che il termine “zammataro” è quello che identificava il pastore che trasformava il latte in ricotta>>. (tratto da www.grifeo.it)

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La grande lapide del Palazzo Trigona

La grande lapide sul portone d'ingresso del Palazzo Trigona della Floresta

Tutti l’abbiamo guardata, vista, osservata, letta, ma pochi sanno di che cosa si tratta e cosa c’è scritto. Leggendo superficialmente la grande lapide nella foto, si riesce a intuire qualcosa, ma rimane solo un’intuizione. Ebbene, facendomi aiutare dall’amico Benedetto (in tutti i sensi) che ne sa più di me di latino, per non avere dei dubbi travisandone il significato, sono riuscito a chiarirmi le idee sulla lapide commemorativa più grande che esiste a Piazza, quella sul portone d’ingresso al Palazzo Trigona della Floresta, “prossimo” Museo della Città. Per contestualizzare la posa della lapide, bisogna fare qualche passo indietro e conoscere la situazione che portò il Sovrano Borbone, soprannominato benevolmente per l’educazione semplice e popolana Re Lazzarone dal suo tutore Domenico Cattaneo, a Piazza. Allo scoppiare della Rivoluzione Francese, nel 1789, non vi furono immediate ripercussioni a Napoli. Fu solo dopo la caduta della monarchia francese e la morte sulla ghigliottina dei reali di Francia, che la politica di re Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia (Napoli 1751-1825) e della sua consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena (tra l'altro sorella della regina Maria Antonietta), cominciò ad avere un chiaro carattere antifrancese e antigiacobino. Nel 1792 il Regno di Napoli aderisce alla prima coalizione antifrancese e cominciano le prime azioni di guerra contro le truppe rivoluzionarie. Tra alterne vittorie e sconfitte, con relativi armistizi e dichiarazioni di pace, con o senza coinvolgimenti di eserciti stranieri “amici” (Austriaci-Russi-Inglesi) il Re nel 1799 è costretto a fuggire a Palermo (I volta) lasciando a difesa di Napoli i lazzari a lui devoti e che pagano con 3.000 morti l’inutile devozione, cosicché i Francesi riescono a fondare la Repubblica Napoletana. Dopo circa tre anni (nel 1802) grazie alla pace di Amiens, il Re torna a Napoli dichiarando la Repubblica decaduta, giustiziando e mandando all’ergastolo o in esilio moltissimi che avevano appoggiato i Francesi. Dopo cinque anni, nel 1805, allo scoppio delle ostilità tra l’Austria e la Francia, Ferdinando firma un trattato di neutralità con quest’ultima, però pochi giorni dopo si allea con l’Austria nella “Terza Coalizione” antifrancese. A questo punto la Francia nel febbraio del 1806 invade il Regno di Napoli, dichiarando decaduta la dinastia borbonica, ma in gennaio il Re ha già lasciato Napoli, per tornare a Palermo per la seconda volta. Questo è l’avvenimento che ci interessa a proposito della lapide piazzese. Il Re a Palermo «decise di percorrere l’Isola per conoscere città e paesi, per sentire dal vivo le esigenze delle popolazioni, per riconquistare soprattutto quella stima e quella fiducia che aveva perduto nel 1802 con un atto di sovrana arroganza. A Piazza vi giunse il 1° maggio 1806 accolto con grande esultanza dal Senato Cittadino […], dal Capitano di Giustizia, dai Giudici, dal Secreto, dal Comandante della Legione, dal Vicario Generale, dal Clero, nonché da una moltitudine di popolo giunta dai paesi della Comarca. Prese dimora a palazzo Trigona della Floresta, partecipò ai festeggiamenti della Santa Patrona del 2 e 3 maggio, con unanime commozione dei piazzesi, ripartiì la mattina del 4 maggio. Nei tre giorni di permanenza in città comunicò ai Senatori la notizia ch’Egli aveva inoltrato con parere favorevole a papa Pio VII la richiesta di erezione della nostra città a sede vescovile, confermò ai piazzesi gli antichi privilegi ed in particolare quello dei Tre Giudici o della Corte Criminale e Civile»². Ed eccovi la traduzione della lapide posta a ricordo della visita reale:
______________

A FERDINANDO III RE DI SICILIA CLEMENTISSIMO
CHE GIUNGENDO A PIAZZA
ONORÒ, GLORIFICÒ E ADORNÒ CON LA SUA PRESENZA
QUESTA CASA E QUESTA FAMIGLIA
E INOLTRE PREMIÒ
QUESTA CITTÀ
CON L’ONORE DELLA PIÙ ALTA CARICA DELLO STATO  

ALOISIO MARIA TRIGONA ARDOINO MARCHESE DELLA FLORESTA E SAN CONO¹
ILLUSTRE CAVALIERE DELL’ORDINE GEROSOLIMITANO
IN PERPETUO RICORDO DELLA MEMORIA POSE
GIORNO 1 MAGGIO 1806
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¹ Luigi Maria Trigona Ardoino, nato nel 1764 dal matrimonio tra Ottavio Maria Trigona Bellotti (fondatore di San Cono) e Girolama Ardoino Celestre, era II marchese della Floresta e XI barone di San Cono Scitibillini e Sant'Antonino. Si sposò nel 1789 con Marianna Beneventano La Rocca di Scicli e morì nel 1829. Il figlio di questi, Ottavio Concetto Trigona (m. 1850) e la moglie Raimonda Trigona Pilo di Mandrascate, nel 1837 ospiteranno sempre nel loro Palazzo della Floresta, il nipote di Ferdinando I, Ferdinando II delle Due Sicilie e la madre Maria Isabella di Spagna.

² Litterio Villari, Storia della Città di Piazza Armerina, Piacenza 1981, pp. 450, 451.

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Stemma Paternò-Castello ad Aidone

Chiesa di San Giovanni Evangelista, Aidone

Stemma Famiglia Paternò Castello sul portone d'ingresso della chiesa

Stemma Famiglia Paternò Castello, Palazzo Biscari, Mirabella Imbaccari

Quando ho parlato della chiesa di San Giovanni Evangelista di Aidone, risalente ai primi decenni del XIII secolo, avevo descritto, nel limite del possibile, gli stemmi che esistono sul portone d'ingresso alla chiesa. Anche se ridotti male perché logorati dal tempo, ero riuscito a individuarne due dei quattro. Uno dei due è quello posto sulla chiave di volta del portale, ovvero la croce bianca a otto punte su campo rosso dei Cavalieri di San Giovanni Battista di Gerusalemme, adottato da quando i Cavalieri si stabilirono sull'isola di Malta nel 1530; l'altro è il primo a sx, molto somigliante a quello della famiglia Crescimanno di Piazza. Quelli che ritenevo indecifrabili erano il primo da dx, inquartato: nel 1° e nel 4° di rosso alla croce d'argento, nel 2° e nel 3° d'azzurro all'aquila spiegata d'oro, probabile stemma di un Gran Maestro dell'Ordine gerosolimitano; e quello al centro, che guardandolo non attentamente, mi aveva suggerito di non azzardare supposizioni. Invece, l'altro giorno, durante l'ennesima passeggiata istruttiva per le strade della cittadina che ha tante peculiarità in comune con Piazza, mi sono dovuto ricredere. A quell'ora il sole battendo su di esso mi ha "illuminato", mostrandomi un chiaro esempio di stemma della famiglia Paternò Castello, una delle più nobili e antiche di Sicilia. Quella dei Paternò, dicendente dalla Casa Sovrana dei Conti di Barcellona e Provenza e da quella Sovrana degli Altavilla, aveva come capostipite Roberto d'Embrun (1050-1085 ca.) pronipote di Toda di Provenza contessa di Embrun e di Bernardo Tagliaferro conte di Besalù. Egli, sceso in Sicilia intorno al 1070 al seguito del Gran Conte Ruggero, si distinse per tale coraggio nella conquista della cittadina di Paternò che ne ottenne la signoria feudale e il nome. Roberto fu inoltre insignito dal Gran Conte dei feudi di Aylbacar e di Buccheri assumendo un'importanza tale che il suo stemma "Barcellona", di rosso a quattro pali d'oro attraversato da una banda d'azzurro divenuto anche quello dei Paternò (quello nella metà di sx delle foto in mezzo e in basso), fu posto accanto a quello del Gran Conte Ruggero e a quello della Città di Catania sull'architrave del Duomo di Catania. Nel XVII secolo la linea dei Paternò diventa Paternò-Castello per il matrimonio nel 1553 tra Don Angelo Francesco Paternò IV barone di Aragona etc. e Francesca Castello dei baroni di Biscari (ex casale saraceno Odogrillo, oggi Acate - Rg, in possesso di Gugliemo Raimondo de Castellis poi solo Castellis e infine Castello dal 1478). Infatti, è il primogenito di Don Angelo Francesco e di Francesca Castello, Don Orazio Paternò (+1614) ad aggiungere, per la prima volta al suo, il cognome della madre, Castello, divenendo Orazio Paternò Castello V barone di Aragona etc. e I barone di Biscari. Nel 1633 il figlio di Orazio, Agatino, diventa il I principe di Biscari col diritto di mero e misto imperio. Lo stemma dei Castello era d'azzurro al castello di tre torri d'oro, come quello nella metà di dx delle foto in mezzo e in basso. Ora, in quella che considero l'enciclopedia ecclesiastica piazzese, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, 1988, del grande storico gen.le Litterio Villari, tra Le ultime notizie sulla Commenda di San Giovanni Battista di Piazza a pp. 178 e 179, troviamo come commendatori siciliani: «Seguì intorno al 1740 frà Michele Paternò dei baroni di Raddusa e di Destra. Questi, nato a Catania nel 1706 da Vincenzo Paternò-Trigona e da Anna Bonajuto-Paternò, aveva la nonna piazzese - Silvia Trigona Marchiafava di Spitalotto - e quindi contava a Piazza molti parenti fra i Trigona e gli Starrabba. Ammesso nell'Ordine quale cavaliere novizio [...], giovanissimo ottenne la recevittoria di Augusta e quindi la commenda di Piazza. Qui giunto, diede inizio a grossi lavori di abbellimento della chiesa; [...] curò l'incisione di lapidi-ricordo, su una delle quali è scritta la data (a. 1764). [...] Ultimo commendatore fu frà Francesco Paternò-Castello, ricevuto nella religione nel 1749. Occupò la carica di Ammiraglio e di Piliere d'Italia dal 2 dic. 1779 al 28 nov. 1780, oltreché godette le rendite delle commende di S. Maria del Tempio di Caltagirone, di S. Giovanni di Barletta e del S. Sepolcro di Brindisi». Alla luce di questa premessa, che dimostra lo stetto rapporto tra le Commende dei due centri abitati e la famiglia Paternò, mi piace pensare che, tra le tante cose che legano queste due cittadine, si possa aggiungere anche quest'altro tassello araldico-gerosolimitano legato a un componente dell'illustre famiglia Paternò-Castello, Cavaliere e Commendatore titolare alla fine del Settecento sia della Commenda di San Giovanni Battista di Piazza sia di quella di San Giovanni Evangelista di Aidone.

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Edicola n. 58

L'Edicola Votiva n. 58 è quella che si trova in via Iaci. È una via poco conosciuta se non da chi risiede da quelle parti, pur essendo a un passo dal piano Demani (ex largo Gaffore barone del Toscano) e dalla via Cavour, zona una volta conosciuta col nome d' Sànta R'sulìa, cuore palpitante della Ciàzza sino agli anni Settanta. Poi, con l'espansione verso est, il mercato ortofrutticolo e alimentare subì un crollo che decretò l'eliminazione di tutte gli esercizi commerciali che esistevano fuori e dentro i locali dell'ex Centrale Elettrica a nafta, ex Palestra Ginnica, ex Chiesa e Convento Carmelitano di Santa Rosalia, sorto nella prima metà del Seicento. Noi di una certa età ricordiamo con un pizzico di nostalgia il nostro "Centro Commerciale" all'aperto con l'immensa (era l'impressione che dava a noi piccoli) pescheria dove  s'incartavano sàrdi, m'rrùzzu e gammarèddu nei grandi còppi di cartapaglia gialla. Ritornando alla nostra Edicola, possiamo dire che è tenuta bene con una grata in ferro che custodisce la Sacra Famiglia in gesso. La via è intitolata alla famiglia che abitava nei pressi, quella degli Iaci o Jaci baroni dei feudi Magnini e Feudonuovo e, nel 1641, anche del Casalotto. Questa nobile famiglia abitò anche nel palazzo da Calata û Collegiu, come ci ricorda il grande stemma sul portone del palazzo costruito da uno dei pochissimi duchi di Piazza, Desiderio Sanfilippo duca di Grotte. Della famiglia Jaci c'è lo stemma anche nella chiesa del Carmine.

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