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Gaetano Masuzzo

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La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

A sinistra la marionetta di Nòfriu, a destra quella di V'rtìcchiu

Avendo sottomano un vocabolario galloitalico – italiano, mi sono imbattuto in un termine che da bambino lo sentivo pronunciare dai miei genitori. Le occasioni erano le più disparate: da mia madre lo sentivo quando parlava di qualche conoscente dal carattere volubile; da mio padre quando ricordava un cliente particolare in maniera canzonatoria. Il termine che ai tanti giovani piazzesi sarà completamente astruso e incomprensibile, a qualche mio coetaneo lo riporterà indietro di oltre 60/70 anni. La parola è V’rtìcchiu.      

 

La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

 

       Quando, anticamente, si usava dipanare e ridurre le matasse di lana o altri filati in gomitoli per tessere gli indumenti, venivano usati l’arcolaio1 (per dipanare le matasse) e l’aspo2 (per costruirle). Questi erano apparecchi di legno o metallo, di uso artigianale o domestico, girevoli su un perno, accanto ai quali c’era l’indispensabile fuso1. Questi era un arnese di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate, usato nella filatura per produrre, mediante rotazione, la torsione del filo che si riavvolgeva allo stesso. Poi il filo veniva avvolto alla spola3 (fuso più sottile) per essere inserita nella navetta, idonea a passare i fili della trama tra quelli dell’ordito (parte longitudinale del tessuto) con moto di va e vieni.

        Al fuso per il movimento che faceva gli fu dato il nome di Verticulus4, derivante dal verbo latino “Verto, vertere”5 che, tra i tanti significati, ha quelli di Girare, Girare intorno a sé, Muoversi, Scorrere, Volgere, Voltare, Voltarsi.

        Il nome Verticulus si trasformò nell’italiano Verticchio6, nel siciliano Virticchio7 e nel piazzese V’rtìcchiu8.

        Questo movimento dei fusi di girare intorno a sé, di agitarsi, di voltarsi e saltellare per mezzo dei fili ai quali erano appesi, era identico a quello delle marionette di legno e dei pupi siciliani dell’Ottocento e a uno di questi fu dato, appunto, il nome di Verticchio, Virticchio, V’rtìcchiu.

        V’rtìcchiu era un personaggio principale della farsa9 (genere teatrale popolare molto antico, con un esasperato carattere comico, grossolano, stravagante, fantasioso) dell’Ottocento. Compagno di Nofrio10 o Nofriu11, V’rtìcchiu era un personaggio maschile in paggio12 (senza armatura) dal viso glabro e con l’occhio sinistro chiuso. Alto, dal piede al ferro, 149 cm, indossava una camicia bianca, la cravatta rossa (nella foto chiara), la giacca blu (nella foto avano chiaro), i pantaloni grigi (nella foto celesti) e il berretto di pelliccia. Testa, busto, gambe, cosce, piedi e mani erano di legno, le braccia erano di stoffa.

        A Piazza col termine V’rtìcchiu veniva indicato, oltre al pupo siciliano, il ticchio, la convulsione, l’isterismo, un bambino, un moccioso, un piccoletto, uno smilzo, un mingherlino13.

                                                                                                                         Gaetano Masuzzo, 2023

 

1 https://pellis.filologicafriulana.it/fotografie/strumenti-del-lavoro-arcolaio-fuso

2 https://www.treccani.it/vocabolario/aspo/

3https://www.treccani.it/vocabolario/spola/#:~:text=fare%20la%20s.%2C%20andare%20avanti,tra%20casa%20e%20ufficio.

4https://sicilianonuduecrudu.home.blog/2019/10/16/abballavirticchiu-le-origini/#:~:text=Abballavirticchiu%20%C3%A8%20una%20parola%20siciliana,alle%20articolazioni%20del%20corpo%20umano).

5 Campanini - Carboni, Vocabolario Latino-Italiano, Paravia, Torino 1961, p. 738.

6 https://www.treccani.it/vocabolario/vertecchio/

7 Cultura Italia, http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_88381   

8 Vocabolari gallo-italico/italiano: Gioacchino Fonti 1990, Mario Adamo 2018. In quello di Remigio Roccella, 1970, p. 287, troviamo solo “V’rtìcch, s.m. convulsione, isterica”.

9 https://it.wikipedia.org/wiki/Farsa_(genere_teatrale)

10 Cit., Cultura Italia.

11 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, pp. 8, 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

12 https://it.wikipedia.org/wiki/Opera_dei_pupi : Il pupo e il puparo: caratteristiche generali.

13 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, p. 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

 

 

I cutupìddi

                                                     I CUTUPÌDDI

        La parola cutupìddi ci riporta indietro alla nostra infanzia (parlo per i nati negli anni Cinquanta e/o Sessanta), quando alla richiesta piena di fervore e speranza «papà che purtàtu?» lui, a tamburo battente, rispondeva con nonchalance «cutupìddi!». E tutto finiva lì.
L’altro giorno un amico coetaneo, con le mie stesse manie e curiosità, mi ha chiesto cosa fossero in realtà i cutupìddi, oltre al comune intendere di «nulla di nulla» o «poco o niente».
Tornato a casa cu pùl’sg ‘ntèsta, a chi potevo rivolgermi, visto che il mio caro vocabolario in gallo-italico di G. Fonti non mi rispondeva e non mi aiutava? All’immenso zio internet che, se usato con intelligenza e al momento giusto, ci aiuta (quasi) in tutto. Avviata la ricerca mi imbatto nel sito di "siciliafan.it" (a fondo pagina). Ci clicco e mi appare l’articolo di Nando CIMINO, Teniamoci leggeri mangiando cutupiddi, del 23 aprile 2015, per la rubrica CONOSCERE LA SICILIA.
Eccovelo: «Non fosse altro che per la loro scarsa consistenza mi verrebbe da dire che per mantenersi leggeri non sarebbe male mangiare cutupiddi. Non cercatela nei vocabolari; difficile trovarla anche lì questa “strana” parola della nostra lingua siciliana che ancora oggi continuiamo però ad usare con una certa frequenza. La adoperano soprattutto gli anziani, ma non solo loro, quando se gli si chiede cosa hanno mangiato, per non fartelo sapere o perché son veramente a stomaco vuoto, ti rispondono cutupiddi; come a voler dire, poco o niente. Ma a parte l’uso comune che si fa di questo vocabolo in realtà il cutupiddu esiste davvero; infatti in talune località dell’entroterra siciliano, anche se ormai pochi probabilmente se ne ricordano, con questo nome pare venissero chiamati i porcellini d’india (nella foto). Ma il termine cutupiddu o cutupiddru, ha anche un altro significato, infatti in altre zone della nostra Sicilia, stava invece ad indicare gli escrementi delle capre, (alias zzòddiri). La parola comunque, soprattutto nel primo caso, potrebbe esser stata oggetto, ma sono solo supposizioni, di una qualche mutazione “genetica”; c’è infatti chi sostiene possa essere scaturita dal fatto che i porcellini d’india venissero paragonati a dei piccoli topi ovvero tupiddri, piuttosto che surciteddi come in genere si dice. Sarà vero?
        Il porcellino d’india, che tutti sappiamo essere comunque commestibile, pare sia buono arrosto o per il ragù, in realtà per le sue piccole dimensioni non è certo animale da soddisfare il nostro appetito; ecco quindi che mangiare cutupiddi, nel tempo potrebbe esser stato associato al fatto di aver mangiato poco o niente. Altrettanto dicasi allorché, volendo dare del poco intelligente a qualcuno, lo si definisce testa di cutupiddu, paragonando il suo cervello a quello, ovviamente piccolo, di questo simpatico animale o, ancor peggio, ad un ricettacolo di escrementi. Con questa mia ricostruzione, non facile e certamente opinabile, spero di aver soddisfatto la curiosità di tanti; ovviamente se sapete di più e di altro informateci. Per quanto riguarda poi l’aspetto culinario ne faccio personalmente a meno; augurando lunga vita al  povero indifeso porcellino d’india alias… forse cutupiddu!».

Tratto da <https://www.siciliafan.it/teniamoci-leggeri-mangiando-cutupiddi-di-nando-cimino/?refresh_ce> ultima lettura 21/10/2021.

cronarmerina.it

Monte Naone o Navone?

MONTE NAONE o NAVONE?

Il 29 agosto 2021, mentre si elencavano le attività nel Gruppo Archeologico “L. Villari” di Piazza Armerina, mi sono inserito con questo breve intervento:

«Per quanto riguarda le attività del Gruppo Archeologico, mi fa piacere ricordare di essere stato coinvolto, dal 2018, in diverse passeggiate istruttive per le vie della città come “cicerone nostrano”. Niente di eccezionale, ma ci è servito per conoscere un po’ la storia, anche quella con la esse minuscola, del nostro centro abitato. Accanto agli avvenimenti memorabili ho simpaticamente inserito anche aneddoti personali, che hanno coinvolto tanto i compagni di viaggio. Così facendo, abbiamo conosciuto un po’ meglio i nostri beni storici sparpagliati per le vie della città, quanto meno li abbiamo individuati in questo grande museo a cielo aperto, come è avvenuto con un altro reperto, oltre ai 5 presenti in questo sito (il chiostro del Collegio dei Gesuiti), di cui ho parlato l’altro giorno durante la commemorazione dello storico piazzese generale Litterio Villari. Si tratta della scultura in pietra della Culòvria cavalcata da un putto, posta in quell’angolo a destra, proveniente dalla fontana/abbeveratoio ottagonale che c’era prima, al posto del distributore di benzina alla Taccura.  La Culòvria, grossa e lunga biscia non sempre velenosa di acqua dolce, in italiano Còlubro lacertino, è stata volutamente confusa, nei racconti spaventosi degli anziani ai nipoti, con la Biddìna, termine arabo che indica un mostro terribile con bocca e occhi rossi, un piccolo drago o serpente d’acqua di diversi metri, con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Concludo, prima con l’augurio di ripetere queste simpatiche esperienze al più presto, poi precisando che il sito archeologico di Monte Naone, chiamato nei secoli anche Anaor, Avator, Anator, Nonimna, Noymna, Nomai, Naona, Nauno, Nauni, Naonis, Nacone, fu chiamato così sino al 1927 quando, per la legge fascista di quell’anno, avente come fine l’italianizzazione della toponomastica con l’intento di diffondere la lingua italiana, intervenendo così sull'uso del dialetto di gruppi linguistici con diversa madrelingua, gli venne dato quello di Navone. Quindi, il nostro “Naone” fu inteso come termine “dialettale o straniero” da tradurre con l’italiano “Navone”, che nulla aveva a che fare con la storia e la geografia del sito. Sarebbe auspicabile, quindi, riproporre sempre l’antico nome di “Naone”».
Prof. Gaetano Masuzzo

cronarmerina.it


Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

Il volume Super Physicam Aristotelis del 1494, Biblioteca Comunale, Piazza Armerina

Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

In una teca della “Mostra del Libro antico” presso la Biblioteca Comunale “Alceste e Remigio Roccella” di Piazza Armerina, fa bella mostra, tra i tanti volumi esposti, un volume che attrae subito l’attenzione dei visitatori, sia per l’antichissima rilegatura “in mezza pelle su assi di legno” dove sono rimaste, nel margine di dx, persino gli incavi dov’erano poste due cerniere, che dovevano servire a tenere chiuso il volume agganciandosi con quelle sottostanti; sia per l’anno “1492” scritto a mano nella parte superiore della copertina, poco sotto quello che sembra il titolo abbreviato o la categoria archivistica in caratteri gotici medievali: "Och.rz.fi.lib.phico". A questo punto ci viene in aiuto la didascalia “d” che accompagna il volume nella teca n. 3: si tratta del volume di Guillelmus de Ockam, Super Physicam Aristotelis, Correxit Marcus Alexandreus, Bologna, Benedetto Faelli, 13 dicembre 1494, legato con altri due incunaboli e alcune pergamene scritte, provenienti da San Pietro di Piazza, cioè dalla chiesa e convento dei Francescani Osservanti.

Cerco di chiarire meglio: Marcus Alexandreus, alias Marco da Benevento (1460/65-1521/25)¹, monaco benedettino dei celestini, faceva stampare a Bologna, nel dicembre del 1494, il commento di Guglielmo di Ockham alla fisica aristotelica sulla natura dal titolo Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis, per dargli il dovuto rilievo riproponendolo (correxit) dopo tanto tempo. L'edizione era dedicata al filosofo e medico Alessandro Achillini (1461/63-1512), suo insegnante a Bologna, dal quale Marco dichiara di essere stato spinto a riportare alla luce la "sottilissima" fisica del francescano inglese Guglielmo di Ockham², un filosofo troppo a lungo confinato nelle tenebre. In questo modo Marco confermava la sua volontà di percorrere una diversa via filosofica, passando dalla tradizionale formazione scolastica alle dottrine logiche “moderne” sostenute dai “nominalisti” di Oxford³ un secolo e mezzo prima. Per quanto riguarda l’anno 1492 scritto sulla copertina di legno, si può supporre che sia stato un errore nella lettura dell’anno riportato, forse, all’interno, durante una delle tante ricollocazioni cronologiche o disciplinari.

Cercando notizie su Guglielmo di Ockham, ho trovato che il filosofo francescano inglese fu di ispirazione a Umberto Eco per il personaggio di Guglielmo da Baskerville, protagonista del romanzo Il nome della rosa, interpretato da Sean Connery nell'omonimo film del 1986 per la regia di Jean-Jacques Annaud. Guglielmo di Ockham, citato spesso da Guglielmo di Baskerville, che nel film era un eruditissimo frate francescano inglese del XIV secolo, consigliere dell'Imperatore e con un passato come inquisitore, veniva considerato insieme a Tommaso d'Aquino e a Giovanni Duns Scoto, come uno dei più importanti esponenti della filosofia medievale, e come il suo omonimo letterario fu vittima della peste4. Guglielmo di Baskerville alla fine del libro, e del film, "chiede di poter leggere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, unica copia esistente in tutto il mondo. Jorge acconsente, ma Guglielmo si mette un guanto, poiché sa che le pagine del libro sono avvelenate. Il mistero è così chiarito: Jorge era il colpevole di quelle morti ed è stato lui ad avvelenare le pagine del libro, in modo che chiunque le leggesse trovasse una morte certa. Questi, capendo di essere stato scoperto, si dà alla fuga, portando con sé il libro e venendo inseguito dai due monaci. Guglielmo gli chiede perché abbia fatto tutto questo e Jorge rivela di aver sempre avuto in odio il libro di Aristotele, in quanto il riso, in esso trattato, uccide la paura e senza la paura non può esserci fede in Dio: se tutti, infatti, apprendessero dal libro che è possibile ridere di tutto, anche di Dio, il mondo precipiterebbe nel caos"5.

¹ <https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-da-benevento_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 11/9/2021).

² Occam (o Ockham), Guglièlmo di. - Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° - m. 1349 o 1350). Entrato nell'ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni (<https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-di-occam/> u. c. 11/9/2021).

³ Guglielmo di Ockham – Manuale di storia della filosofia medievale, www3.unisi.it (u. c. 11/9/2021).

4 <https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_da_Baskerville> (u. c. 11/9/2021).

5 <https://it.wikipedia.org/wiki/Il_nome_della_rosa_(film)> (u. c. 19/9/2021).

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