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Gaetano Masuzzo

Gaetano Masuzzo

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Libro che parla anche di Piazza nel Cinquecento

 

                      Il volume recensito1

Palazzo Starrabba poi Trigona in via Umberto, 45, Piazza Armerina (EN)

Chiesa di S. Vincenzo Ferreri, Piazza Armerina (EN)

           Il libro nella foto in alto, di cui si sarebbe apprezzato l’indice, può essere considerato una sorta di radiografia della società siciliana, e in particolare della società nobiliare nel Val di Noto, tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento, per arrivare ai primi del Seicento. Tante sono le notizie e i particolari che fanno gola agli appassionati della storia e della vita sociale di quel periodo: nomi di feudi, notai, promesse di matrimonio in tenerissima età (p. 97), cruenti faide familiari (p. 64) con relative vendette e riappacificazioni, curiosi e ripetitivi cerimoniali nella presa di possesso per ognuno dei feudi ereditati (pp. 51, 85, 92, 135). Non esclusa la consuetudine di tenere, nei propri palazzi, schiavi di ogni genere, soprattutto nordafricani, sia per i lavori domestici sia per quelli pesanti, acquistati, venduti, prestati ad altri nobili, lasciati in eredità o liberati per buona condotta, concedendo loro, in qualche caso, persino il privilegio di assumere lo stesso cognome del padrone. A Noto, su una popolazione di 10.000 abitanti, quasi come quella che aveva allora Piazza3, si contavano circa 600 schiavi.
           Filo conduttore del libro è la storia di un feudo, quello di Scibini, o Xibini o ancora Dichibini, nella “marittima” di Noto (p. 25), possesso familiare della baronessa Ippolita Sortino. Esso comprendeva, nella lingua di terra prospicente il mare, detta Marzamemi, ad uso di pascolo per pecore, capre e maiali, anche un piccolo porto, come caricatore / scaricatore di derrate agricole e, nel ‘600, tonnara, chiamato dagli Arabi (Idrisi) “Marsâ ‘al Hamâm”, ovvero “Baia delle Tortore” o, per qualcuno (Sebastiano Lupo), “Porto della Colomba”, dal nome delle imbarcazioni che allora vi approdavano. In proposito, l’autore pubblica un rogito notarile del 1456, appartenuto alla famiglia Sortino, che rappresenta il più antico documento contenente il toponimo di Marzamemi (p. 26).
           Nella prima parte, si esaminano le vicende dei maggiori rappresentanti del nobile casato netino, dal barone Antonino Sortino, personaggio molto in vista e grande proprietario terriero, al suo primogenito Guglielmo, capitano di giustizia a Noto, dove fu insignito del titolo di patrizio, poi trasferitosi a Siracusa, ricoprendo la carica di giurato (pp. 23-83). Fino ad arrivare al barone Vincenzo Sortino, dal cui matrimonio con Dorotea Bellomo nacque, nel 1546, a Siracusa, l’unica loro discendente, Ippolita Sortino (p. 87). Orfana di padre, in tenerissima età, questa avrebbe sposato, poco più che dodicenne, il figlio di un barone netino, Giovan Vincenzo Zarbari (p. 107). Rimasta vedova, nel giro di due anni, per la prematura scomparsa del giovane marito (1561), non avendo ancora messo al mondo dei figli, Ippolita fu nuovamente promessa a «un ricco barone, molto più grande di lei, vedovo e padre di un bambino, originario della città di Piazza», Giovan Francesco Starrabba, al quale portava in dote nel 1563 i feudi aviti di Scibini, Bimisca e Pian di Belludia. Trentatré anni lo sposo, diciotto la sposa (pp. 112-113). Un matrimonio d’affari, si direbbe, ricercato, voluto e, soprattutto, fondamentale per l’ascesa sociale del casato piazzese degli Starrabba.
           Nobili di recente elevazione, gli Starrabba erano baroni di Spedalotto, vicino Aidone, feudo acquistato nel 1557 dai Crescimanno, per 1470 onze. Mentre, nel 1564, entreranno in possesso del feudo di Gatta, presso Piazza, pagando ai Montaperti, che lo detenevano, la somma di 7600 onze (p. 121). Entrambi questi feudi, Spedalotto e Gatta, di cui si era insignito Giovan Francesco, passeranno in progresso di tempo ai Trigona, consorti degli Starrabba.
           Nella seconda parte del libro, assurge per l’appunto a protagonista la figura, fin qui poco nota, di Giovan Francesco Starrabba. A lui si deve la costruzione del grande palazzo di famiglia (foto in mezzo), nell’antico quartiere allora denominato di San Domenico: descritto nel contratto nuziale del 21 gennaio 1563, rogato a Noto, come un «tenimentum domorum proprie habitationis», delimitato da tre strade pubbliche, dove abitavano i suoi genitori, Pietro e Costanza, ancora viventi nel 1572 (p. 114 e nota 341); un palazzo fortificato, seguendo il costume dell’epoca, i cui merli vennero alzati nel 1566 (p. 122). Situato nell’attuale via Umberto, 45, conserva intatti il portale d’ingresso, i mascheroni e le mensole che reggono i balconi.    
          Questo volume si dimostra prezioso anche per la storia di Piazza, risolvendo taluni aspetti poco chiari, se non contradittori, dalla cronologia al contesto politico e sociale, grazie a una paziente e attrezzata opera di consultazione dei tanti riveli o censimenti cinquecenteschi. In particolar modo, analizzando quello nel 1593, si è riusciti finalmente a indicare con precisione l’anno di nascita di un piazzese tanto illustre, il barone Marco Trigona, fondatore, con un suo lascito testamentario, della futura Cattedrale, riedificata sulla precedente chiesa trecentesca. Oltre le date dei biografi (Minacapelli ed altri), bisogna correggere infatti quanto riportato da più parti a proposito della sottoscrizione, nel 1555, dei Capitoli della pace di Piazza, dove venivano segnalati il barone Giovan Francesco Trigona e, erroneamente, quello che si riteneva suo figlio Marco. A quella data quest’ultimo, dovendo essere maggiorenne per firmare, sarebbe nato almeno nel 1537, mentre l’autore circoscrive, fonti alla mano, la sua data di nascita agli anni 1560/1561 (p. 122 e nota 366). Pertanto, quando egli convola a nozze, nel 1574, con Laura de Assoro, ha 13/14 anni, risultando lei, nata nel 1557, più anziana di 3/4 anni. Questo farebbe supporre che si sarebbero potuti sposare per procura.
           Fulminea l’ascesa sociale degli Starrabba, attraverso Giovan Francesco, personaggio che meriterebbe uno studio monografico, brillando di luce propria, accanto e prima di Marco Trigona. Accresciuti i suoi possedimenti feudali, «impegnandosi a pagare somme notevolissime», Giovan Francesco acquisiva dai Ventimiglia nel 1579 la baronia di Regiovanni, con sette feudi e un castello, permutata poi con la contea di Naso, in territorio messinese, comprendente il castello di Capo d’Orlando (pp. 139-141). Fulminea l’ascesa, fulminea la caduta, perché alla sua morte, nel 1592, i suoi figli non poterono evitare la bancarotta, vedendosi costretti ad alienare tutti i feudi di famiglia, gravati da debiti che risultò impossibile soddisfare. Lo spregiudicato Giovan Francesco aveva fatto il passo più lungo della gamba e, a stento, Pietro Starrabba riuscì a riscattare le tenute avite di Scibini e Bimmisca, mentre suo cugino Antonio Trigona, fratello maggiore di Marco, si impossessava dei feudi di San Cosmano e Gatta, insieme alla “honoratissima casa” di Piazza degli sfortunati congiunti (pp. 150-157).
           Questo volume, ricchissimo di dati e suggestioni, ci dà lo spunto per approfondire le nostre conoscenze sulla chiesa di San Vincenzo Ferreri (foto in basso), primo dei sei compatroni della città di Piazza: fondata col contributo degli Starrabba, essendo situata nelle vicinanze del loro palazzo, e della quale certamente essi detenevano il diritto di patronato. E infatti le armi di questa famiglia si ritrovano, oltre che nel timpano dell’abside, in alto, sopra l’altare maggiore, nei due stemmi sul soffitto della chiesa, come pure sul marmoreo monumento funebre di Giuseppe Starrabba, figlio di primo letto di Giovan Francesco: anch’egli conte di Naso, dopo soli otto mesi aveva dovuto rinunciare al titolo ereditato dal padre, adducendo «gravissima infirmitate cum maximo periculo eius vite» ma, in gran parte, per le difficoltà finanziarie e gestionali, in favore del fratello minore Raffaele che, caduto in disgrazia per un’accusa di omicidio, si vide confiscata, nell’agosto del 1594, la contea che fu alienata definitivamente nel marzo del 1595 (pp. 151-155). 

Gaetano Masuzzo

1 La recensione si trova sulla Rivista della Società di Storia Patria della Sicilia Centro Meridionale, Anno VIII, p. 255.
                                                        
2 Antonello CAPODICASA, Il feudo di Scibini nel Cinquecento e le nobili famiglie Sortino e Starrabba, Associazione Studi Storici e Culturali Editore, Pachino (SR), 2021, pp. 239. L'autore, originario di Pachino, da diversi anni si dedica alla ricerca storico-archivistica prevalentemente rivolta allo studio dei territori di Pachino, Portopalo e Noto. Ha pubblicato Il forte di Capo Passero (2007), Torre Fano (2009), Storie di Noto Antica tra XV e XVII secolo (2015), Storia antica di Porto Palo (2016). Attualmente è Presidente dell'Associazione Studi Storici e Culturali di Pachino (SR).

3 Come veniva chiamata Piazza Armerina sino al 1862.

La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

A sinistra la marionetta di Nòfriu, a destra quella di V'rtìcchiu

Avendo sottomano un vocabolario galloitalico–italiano, mi sono imbattuto in un termine che da bambino lo sentivo pronunciare dai miei genitori. Le occasioni erano le più disparate: da mia madre lo sentivo quando parlava di qualche conoscente dal carattere volubile; da mio padre quando ricordava un cliente particolare in maniera canzonatoria. Il termine che ai tanti giovani piazzesi sarà completamente astruso e incomprensibile, a qualche mio coetaneo lo riporterà indietro di oltre 60/70 anni. La parola è V’rtìcchiu.      

 

La storia di Virticchio, alla piazzese V’rtìcchiu

 

       Quando, anticamente, si usava dipanare e ridurre le matasse di lana o altri filati in gomitoli per tessere gli indumenti, venivano usati l’arcolaio1 (per dipanare le matasse) e l’aspo2 (per formarle). Questi erano apparecchi di legno o metallo, di uso artigianale o domestico, girevoli su un perno, accanto ai quali c’era l’indispensabile fuso1. Questo arnese era di legno dalla caratteristica forma rigonfia al centro e con le estremità assottigliate, usato nella filatura per produrre, mediante rotazione, la torsione del filo che si riavvolgeva allo stesso. Poi il filo veniva avvolto alla spola3 (fuso più sottile) per essere inserita nella navetta, idonea a passare i fili della trama tra quelli dell’ordito (parte longitudinale del tessuto) con moto di va e vieni.

        Al fuso per il movimento che faceva gli fu dato il nome di Verticulus4, derivante dal verbo latino “Verto, vertere”5 che, tra i tanti significati, ha quelli di girare intorno a sé, muoversi, scorrere, volgere, voltare, voltarsi.

        Il nome Verticulus si trasformò nell’italiano Verticchio6, nel siciliano Virticchio7 e nel piazzese V’rtìcchiu8.

        Questo movimento dei fusi di girare intorno a sé, di agitarsi, di voltarsi e saltellare per mezzo dei fili ai quali erano appesi, era identico a quello delle marionette di legno e dei pupi siciliani dell’Ottocento e a uno di questi fu dato, appunto, il nome di Verticchio, Virticchio, V’rtìcchiu.

        V’rtìcchiu era un personaggio principale della farsa9 (genere teatrale popolare molto antico, con un esasperato carattere comico, grossolano, stravagante, fantasioso) dell’Ottocento. Compagno di Nofrio10 o Nofriu11, V’rtìcchiu era un personaggio maschile in paggio12 (senza armatura) dal viso glabro e con l’occhio sinistro chiuso. Alto, dal piede al ferro, 149 cm, indossava una camicia bianca, la cravatta rossa (nella foto chiara), la giacca blu (nella foto avano chiaro), i pantaloni grigi (nella foto celesti) e il berretto di pelliccia. Testa, busto, gambe, cosce, piedi e mani erano di legno, le braccia erano di stoffa.

        A Piazza col termine V’rtìcchiu (in gallo-italico V'rtìcch8) veniva indicato, oltre al pupo siciliano, il ticchio, la convulsione, l’isterismo, un bambino, un moccioso, un piccoletto, uno smilzo, un mingherlino13.

                                                                                                                         Gaetano Masuzzo

 

1 https://pellis.filologicafriulana.it/fotografie/strumenti-del-lavoro-arcolaio-fuso

2 https://www.treccani.it/vocabolario/aspo/

3 https://www.treccani.it/vocabolario/spola/#:~:text=fare%20la%20s.%2C%20andare%20avanti,tra%20casa%20e%20ufficio.

4 https://sicilianonuduecrudu.home.blog/2019/10/16/abballavirticchiu-le-origini/#:~:text=Abballavirticchiu%20%C3%A8%20una%20parola%20siciliana,alle%20articolazioni%20del%20corpo%20umano).

5 Campanini - Carboni, Vocabolario Latino-Italiano, Paravia, Torino 1961, p. 738.

6 https://www.treccani.it/vocabolario/vertecchio/

7 Cultura Italia, http://www.culturaitalia.it/opencms/viewItem.jsp?language=it&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_88381   

8 Vocabolari gallo-italico/italiano: Gioacchino Fonti 1990, Mario Adamo 2018. In quello di Remigio Roccella, 1970, p. 287, troviamo solo “V’rtìcch, s.m. convulsione, isterica”.

9 https://it.wikipedia.org/wiki/Farsa_(genere_teatrale)

10 Cit., Cultura Italia.

11 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, pp. 8, 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

12 https://it.wikipedia.org/wiki/Opera_dei_pupi : Il pupo e il puparo: caratteristiche generali.

13 Cit., Vocabolari: Gioacchino Fonti 1990, p. 238; Mario Adamo 2018, p. 574.

 

 

I cutupìddi

                                                     I CUTUPÌDDI

        La parola cutupìddi ci riporta indietro alla nostra infanzia (parlo per i nati negli anni Cinquanta e/o Sessanta), quando alla richiesta piena di fervore e speranza «papà che purtàtu?» lui, a tamburo battente, rispondeva con nonchalance «cutupìddi!». E tutto finiva lì.
L’altro giorno un amico coetaneo, con le mie stesse manie e curiosità, mi ha chiesto cosa fossero in realtà i cutupìddi, oltre al comune intendere di «nulla di nulla» o «poco o niente».
Tornato a casa cu pùl’sg ‘ntèsta, a chi potevo rivolgermi, visto che il mio caro vocabolario in gallo-italico di G. Fonti non mi rispondeva e non mi aiutava? All’immenso zio internet che, se usato con intelligenza e al momento giusto, ci aiuta (quasi) in tutto. Avviata la ricerca mi imbatto nel sito di "siciliafan.it" (a fondo pagina). Ci clicco e mi appare l’articolo di Nando CIMINO, Teniamoci leggeri mangiando cutupiddi, del 23 aprile 2015, per la rubrica CONOSCERE LA SICILIA.
Eccovelo: «Non fosse altro che per la loro scarsa consistenza mi verrebbe da dire che per mantenersi leggeri non sarebbe male mangiare cutupiddi. Non cercatela nei vocabolari; difficile trovarla anche lì questa “strana” parola della nostra lingua siciliana che ancora oggi continuiamo però ad usare con una certa frequenza. La adoperano soprattutto gli anziani, ma non solo loro, quando se gli si chiede cosa hanno mangiato, per non fartelo sapere o perché son veramente a stomaco vuoto, ti rispondono cutupiddi; come a voler dire, poco o niente. Ma a parte l’uso comune che si fa di questo vocabolo in realtà il cutupiddu esiste davvero; infatti in talune località dell’entroterra siciliano, anche se ormai pochi probabilmente se ne ricordano, con questo nome pare venissero chiamati i porcellini d’india (nella foto). Ma il termine cutupiddu o cutupiddru, ha anche un altro significato, infatti in altre zone della nostra Sicilia, stava invece ad indicare gli escrementi delle capre, (alias zzòddiri). La parola comunque, soprattutto nel primo caso, potrebbe esser stata oggetto, ma sono solo supposizioni, di una qualche mutazione “genetica”; c’è infatti chi sostiene possa essere scaturita dal fatto che i porcellini d’india venissero paragonati a dei piccoli topi ovvero tupiddri, piuttosto che surciteddi come in genere si dice. Sarà vero?
        Il porcellino d’india, che tutti sappiamo essere comunque commestibile, pare sia buono arrosto o per il ragù, in realtà per le sue piccole dimensioni non è certo animale da soddisfare il nostro appetito; ecco quindi che mangiare cutupiddi, nel tempo potrebbe esser stato associato al fatto di aver mangiato poco o niente. Altrettanto dicasi allorché, volendo dare del poco intelligente a qualcuno, lo si definisce testa di cutupiddu, paragonando il suo cervello a quello, ovviamente piccolo, di questo simpatico animale o, ancor peggio, ad un ricettacolo di escrementi. Con questa mia ricostruzione, non facile e certamente opinabile, spero di aver soddisfatto la curiosità di tanti; ovviamente se sapete di più e di altro informateci. Per quanto riguarda poi l’aspetto culinario ne faccio personalmente a meno; augurando lunga vita al  povero indifeso porcellino d’india alias… forse cutupiddu!».

Tratto da <https://www.siciliafan.it/teniamoci-leggeri-mangiando-cutupiddi-di-nando-cimino/?refresh_ce> ultima lettura 21/10/2021.

cronarmerina.it

Monte Naone o Navone?

MONTE NAONE o NAVONE?

Il 29 agosto 2021, mentre si elencavano le attività nel Gruppo Archeologico “L. Villari” di Piazza Armerina, mi sono inserito con questo breve intervento:

«Per quanto riguarda le attività del Gruppo Archeologico, mi fa piacere ricordare di essere stato coinvolto, dal 2018, in diverse passeggiate istruttive per le vie della città come “cicerone nostrano”. Niente di eccezionale, ma ci è servito per conoscere un po’ la storia, anche quella con la esse minuscola, del nostro centro abitato. Accanto agli avvenimenti memorabili ho simpaticamente inserito anche aneddoti personali, che hanno coinvolto tanto i compagni di viaggio. Così facendo, abbiamo conosciuto un po’ meglio i nostri beni storici sparpagliati per le vie della città, quanto meno li abbiamo individuati in questo grande museo a cielo aperto, come è avvenuto con un altro reperto, oltre ai 5 presenti in questo sito (il chiostro del Collegio dei Gesuiti), di cui ho parlato l’altro giorno durante la commemorazione dello storico piazzese generale Litterio Villari. Si tratta della scultura in pietra della Culòvria cavalcata da un putto, posta in quell’angolo a destra, proveniente dalla fontana/abbeveratoio ottagonale che c’era prima, al posto del distributore di benzina alla Taccura.  La Culòvria, grossa e lunga biscia non sempre velenosa di acqua dolce, in italiano Còlubro lacertino, è stata volutamente confusa, nei racconti spaventosi degli anziani ai nipoti, con la Biddìna, termine arabo che indica un mostro terribile con bocca e occhi rossi, un piccolo drago o serpente d’acqua di diversi metri, con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Concludo, prima con l’augurio di ripetere queste simpatiche esperienze al più presto, poi precisando che il sito archeologico di Monte Naone, chiamato nei secoli anche Anaor, Avator, Anator, Nonimna, Noymna, Nomai, Naona, Nauno, Nauni, Naonis, Nacone, fu chiamato così sino al 1927 quando, per la legge fascista di quell’anno, avente come fine l’italianizzazione della toponomastica con l’intento di diffondere la lingua italiana, intervenendo così sull'uso del dialetto di gruppi linguistici con diversa madrelingua, gli venne dato quello di Navone. Quindi, il nostro “Naone” fu inteso come termine “dialettale o straniero” da tradurre con l’italiano “Navone”, che nulla aveva a che fare con la storia e la geografia del sito. Sarebbe auspicabile, quindi, riproporre sempre l’antico nome di “Naone”».
Prof. Gaetano Masuzzo

cronarmerina.it


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