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Il sepolcro di Marco Trigona In evidenza

Sepolcro barone Marco Trigona, XVII sec., Cattedrale, Piazza Armerina

Sepolcro barone Melchiorre Trigona, XVII sec., Cattedrale, Piazza Armerina

L’altro giorno visitando per l’ennesima volta la nostra Cattedrale, ho rivisto il sepolcro di colui che volle, con l’enorme lascito di 100.000 scudi, per altri 140.0001, la ricostruzione della Chiesa Madre sulla precedente trecentesca di Santa Maria Maggiore, il barone Marco Trigona (1546-1598). La tomba del benefattore, in marmo bianco, si trova dietro l’altare maggiore sulla sinistra, mentre sulla destra c’è quella, in marmo nero, di un suo bisnipote, Melchiorre Trigona (1611-1637), di cui parlerò più avanti. Il monumento scolpito nel 1600 dal maestro Raffaele Li Rapi e decorato dal maestro Leonardo Lupo, fu sistemato nel 1605 dal maestro Ruggero di Noto nella cappella prediletta della famiglia Trigona, quella dedicata alla SS. Annunziata2 nella Chiesa Madre. Quasi un secolo dopo, il 23 giugno del 1698, il sepolcro fu spostato, a tribuna ultimata, nel coro del Duomo, dove oggi si trova. Nella parte alta dentro una cornice marmorea (foto in alto), è riprodotto a rilievo e di profilo il busto del barone Trigona, con lo sguardo rivolto verso l’alto, in direzione della teca in argento contenente l’icona bizantina in tela su tavola, rappresentante Maria SS. delle Vittorie, più precisamente la Madonna col Bambino fra le braccia. Alla base della cornice è scolpita la frase «VENIAT IMMUTATIO MEA». Le tre parole latine sono tratte da uno dei versetti (il 14°) che compongono il XIV capitolo dei 42 del Libro di Giobbe. Questo libro è un testo contenuto nella Bibbia, originariamente scritto in ebraico, poi in greco e in latino e la sua trama è molto semplice: è la vita di un uomo ricco, onesto, un uomo che vive nella terra di Uz, fuori dalla Palestina e che appare un esempio di vita perfetta, sia dal punto di vista religioso, che dal punto di vista umano. Il Satana, però, mette in dubbio la sua virtù, non è convinto che la religiosità di Giobbe sia autentica, così ottiene da Dio il potere di metterla alla prova, Giobbe deve perdere tutto quello che possiede, tutto, anche i propri figli. Ciò nonostante, narrano i primi capitoli, Giobbe non viene meno alla sua fede. Ha tre amici, che vengono a consolarlo, ma arrivati da lui non riescono a dire una parola, tanto la sua sofferenza è grande. Poi incomincia un dialogo, nel quale gli amici cercano di convincere Giobbe che c’è un motivo per la sua sofferenza, se Dio lo ha colpito in modo così grave, Giobbe deve avere una qualche responsabilità, deve avere un qualche peccato. Ma Giobbe non è convinto, anzi è convinto della propria giustizia e chiede conto a Dio e Dio risponde, si pone davanti a lui sottoponendolo a una serie di interrogativi, ai quali Giobbe non è in grado di rispondere, per cui è costretto, al termine di questo confronto con Dio, a riconoscere la propria piccolezza e a rinnovare la sua fiducia in Dio. E questo sembra in qualche modo, il culmine del libro, anche se segue una conclusione, nella quale vengono restituiti a Giobbe tutti i beni che aveva prima, per di più raddoppiati. Tornando al versetto 14 del XIV capitolo del Libro di Giobbe, nella versione in latino è «Putasne mortuus homo rursum vivat? Cunctis diebus, quibus nunc milito, exspectarem, donec veniat immutatio mea»3, ovvero «L’uomo che muore può forse rivivere? Aspetterei tutti i giorni del mio duro servizio, finché arrivi per me l’ora del cambio!»4. Pertanto, “veniat immutatio mea” sarebbe “finché arrivi per me l’ora del cambio” oppure “finché venga la mia trasformazione”. Una spiegazione di quale “cambio” o “trasformazione” si tratta, ce la dà Sant’Alfonso Maria de Liguori (1696-1787) vescovo e dottore della Chiesa, nella sua opera Classe Prima. Opere Ascetiche. Via Della Salute: «Pativa Giobbe nel combattere con tanti nemici, ma si consolava colla speranza, che vincendo, e risorgendo dopo la morte, avrebbe mutato stato. […] In cielo si muta stato, quello non è più luogo di fatica, ma di riposo; non di timore, ma di sicurezza; non di mestizia e tedio, ma di allegrezza e gaudio eterno. Colla speranza dunque di tal gaudio animiamoci a combattere sino alla morte, e non ci diamo mai per vinti a’ nostri nemici, donec veniat immutatio nostra, finché non giungerà la fine del nostro combattimento, e il possesso dell’eternità beata»5. A questo punto si può ben capire, come quelle tre parole, non si sa se volute dal Barone stesso prima della sua dipartita, o spontaneamente dai due esecutori testamentari di cui si fa menzione nella lapide sottostante, Francesco de Assaro6 e Angelo Trigona7, racchiudano la consapevolezza del Barone, o dei due parenti che ben lo conoscevano, di non essersi dato mai per vinto e di aver combattuto sino alla morte, per il fine ultimo di ottenere, mutando il proprio stato, l’eternità beata. Nella lapide sottostante, oltre ai due esecutori testamentari di cui sopra, si leggono il nome della moglie, Laura, le opere più importanti volute dal Barone e la data della sua morte, 17 luglio 1598.  L’altro sepolcro, quello in marmo nero, custodisce le spoglie di Trigona Melchiorre barone di Spedalotto, nato nel 1611 e morto, come si legge sulla lapide, nel marzo del 1637, a 26 anni. Inoltre, si legge che a volere la tomba per porla dove si trova, fu il figlio Francesco barone di Spedalotto, Gatta e Ursitto sposato con Rosalia Marchiafava dalla quale ebbe 5 figli.

1 «Marco Trigona B. della Gatta, Ursitto, ed Alzacuda, che fece erede di tutte le sue ricchezze ascendenti alla somma di scudi 140.mila in circa la Beatissima Vergine Protettrice di essa Città di Piazza, col quale fondo si fecero tante opere pubbliche» (Francesco Maria Emanuele e Gaetani, Della Sicilia Nobile continuazione della parte seconda, Baronaggio di questo Regno di Sicilia, Nella Stamp. de' Santi Apostoli, Palermo 1757, p. 182). Non meno notevole fu il lascito di 60.000 scudi della baronessa Panfilia Spinelli, vedova del barone Giovanni Andrea Calascibetta e Landolina, di quasi un secolo prima, nel 1517, destinati al rinnovamento della chiesa trecentesca (cfr. Domenica Sutera, La Chiesa Madre di Piazza Armerina, Lussografica, CL 2010, p. 25).

2 In questa cappella, che si trovava a sinistra della tribuna dell'allora Chiesa Madre, nel 1594 fu realizzato l'arco in alabastro dallo scultore Antonuzzo Gagini (†1602). L'opera in seguito fu posta nel battistero, a destra dell'entrata principale del nuovo Duomo, oggi Cattedrale (ivi, pp. 26, 140).

3 http://www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_vt_iob_lt.html#14 (consultato il 29 gennaio 2020).

4 http://ora-et-labora.net/bibbia/giobbe.html#cap_giobbe_14 (consultato il 29 gennaio 2020).

5 Opere del Beato Alfonso Maria de Liguori, Classe Prima, Opere Ascetiche, Via Della Salute, Per Giacinto Marietti Librajo, Torino 1825, Vol. IX, p. 259.
6 Non si tratta del padre di Laura, Giovan Francesco de Assaro matematico e medico già morto nel 1593, bensì del padre di quest’ultimo e nonno di Laura, Francesco de Assaro regio precettore della Val di Noto nel 1545.
7 Forse primogenito di Giovan Francesco Trigona, laureato in legge civile e criminale, e Vincenza Gaffore.

cronarmerina.it

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