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Gaetano Masuzzo

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12^ Veduta della Città

Veduta di Piazza tratta dal volume Storia della città di Piazza Armerina del gen.le Litterio Villari, 2^ Edizione, 1981 

       La 12^ Veduta della Città di Piazza presente su questo sito è quella nella foto. La prima volta l’ho trovata nelle primissime pagine della 2^ edizione del volume Storia della città di Piazza Armerina di Litterio Villari1, con la seguente didascalia «Piazza. Il borgo a metà del '600. Lo stabile al centro, dagli alti portici, era la sede dell’Università degli Studi. [Esistono due diverse stampe dell’800: una inglese ed una tedesca effettuate su disegno del pittore romano G. d'Onofrio (sec. XVII)]». 
       A distanza di molti anni si possono fare alcune precisazioni, grazie alla pubblicazione della 4^ edizione della Storia della città di Piazza Armerina del gen.le Litterio Villari2, e a quella del prof. Fausto Carmelo Nigrelli, Lo spazio perduto3
       In quella del Villari, sempre nelle prime pagine e nella didascalia, troviamo corretto il nome del pittore da "G. d'Onofrio" a "C.zo d'Onofrio" che, a metà del '600, eseguì il dipinto da cui, poi, nell’800, fu tratta l’acquaforte per le due stampe. "C.zo" sta per Crescenzo, ma se si cercano altre notizie sul pittore Crescenzo d'Onofrio ci si trova davanti ad altre varianti: Crescenzio Onofrio (Roma, 1634 – Firenze 1714), Crescenzio d'Onofrio (artista nato in Italia c.1632 e morto nel 1698/1712), Crescenzio Onofri (pittore, 1634 -1714), Crescenzo Onofri (Roma, 1634 – Firenze 1714 oppure Roma, 1632 – 1715 ca.), sino ad arrivare a "Crescenzo D’Onofrio (probabilmente il nome completo è Crescenzio Onofri) è stato un pittore romano attivo nel XVII secolo, nato a Roma intorno al 1632/1634 e morto nel 1714. Fu un paesaggista, allievo e seguace del pittore Gaspard Dughet, specializzandosi nella pittura di paesaggi, sia su tela che a fresco, per le ville e i palazzi romani". Infatti, su Wikipedia troviamo quello definitivo: "Crescenzio Onofri (Roma, 23 maggio 1634 – Firenze, 17 dicembre 1714) è stato un pittore e incisore italiano". 
       Nella pubblicazione del prof. Nigrelli, alla fine del capitolo 2.1 Rappresentare per conoscere, alle pp. 30 e 31, si viene a sapere che la famosissima "acquaforte"4 tratta dall'opera pittorica di Crescenzio Onofri, fu realizzata dall'inglese William Leighton Leitch5 e grazie all'incisione su lastra d'acciaio dello scozzese James Baylie Allen6, fu realizzata una stampa dal titolo "Veduta di Piazza" per inserirla nel volume di Marco Malagoli-Vecchidel 1841.
       Anni dopo, un'altra stampa di Leitch (forse quella ritenuta tedesca nella didascalia del Villari), intitolata "The Town & Convent of Piazza", fu inserita nell'opera di Jhon Sherer8, The Classic lands of Europe embracing Italy, Sicily, and Greece: with the southern shores of the Mediterranean Swietzerland and Giblatar9, Londra, ca. 186010.
       L’acquaforte e la stampa che ne derivò, intitolata "The Town & Convent of Piazza", «raffigura una veduta in cui la città è rappresentata da sudest, con pastori in primo piano […] nella quale si distinguono con grande precisione, oltre alla cattedrale e al castello, la chiesa e il convento di S. Francesco, il collegio dei Gesuiti, il palazzo di Città, la chiesa di S. Rocco e quella di S. Lucia»11
       Quello che convince poco, trattandosi, come dice la didascalia, di una veduta di Piazza a metà del '600, è la presenza sulla Matrice, oggi Cattedrale, della cupola, perché noi sappiamo che la sua costruzione iniziò nel 1760 con la realizzazione di un tamburo in mattoni da parte del maestro locale Michele Boncardi e completata sette anni più tardi, nel 1767, dall’architetto catanese Francesco Battaglia12, ovvero circa un secolo dopo la datazione del dipinto dell'Onofri. Potrebbe supporsi, a questo punto, un intervento personale dell'incisore dell'acquaforte nell'800, venuto a sapere dell'esistenza della cupola sulla Matrice. 

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1 Litterio Villari, Storia della città di Piazza Armerina, Ed. La Tribuna, Piacenza, 1981. 
Litterio Villari, Storia della città di Piazza Armerina, IBN Editore, Roma, 2013.

3 Fausto Carmelo Nigrelli, Lo spazio perduto, Trasformazioni urbane e modernizzazione a Piazza Armerina nel XIX secolo, FrancoAngeli, Milano, 2019.

Nome che indica sia la tecnica che il disegno che scaturisce dopo l'incisione e la corrosione dell'acido sulla lastra di metallo, acciaio, rame o zinco, per creare disegni per la stampa. 

Maestro scozzese nell'acquerello e nell'illustrazione di paesaggi. Fu maestro di disegno della regina Vittoria per 22 anni (William Leighton Leitch, Glasgow, 1804 - Londra, 1883, fonte Wikipedia). 

Incisore britannico (James Baylie Allen, Birmingham, 1803 - Londra, 1876, fonte Wikipedia).

Marco Malagoli-Vecchi, Il Mediterraneo illustrato, le sue isole e le sue spiagge, comprendente la Sicilia, la costa di Barberia, la Calabria, Gibilterra, Malta, Palermo, Algeri, ecc., Firenze, 1841.

Forse si tratta dello scrittore scozzese nato a Edimburgo nel 1810 e morto dopo 1887.

"Le terre classiche d'Europa che comprendono l'Italia, la Sicilia e la Grecia: con le coste meridionali del Mediterraneo, la Svizzera e Gibilterra".

10 Cf. F.C. Nigrelli, Lo spazio perduto, cit., p. 31, nota 58. Su internet ho trovato che l'opera di John Sherer, di 2 volumi in 1, fu pubblicata a Londra da London Printing & Publishing Co. tra il 1879-1881

11 IviF.C. Nigrelli, Lo spazio perduto, cit., p. 31.

12 Domenica Sutera, La chiesa madre di Piazza Armerina, Ed. Lussografica, Caltanissetta, 2010, p. 117.

 

I capelli della Madonna

I capelli della Madonna

       Scorrendo le foto dell'ultima processione di Maria SS. delle Vittorie, mi sono imbattuto in quella dove c'è il Tempietto che custodisce alcuni capelli della Madonna e che è portato a spalla dalle donne piazzesi.

       Secondo le ultime ricerche, sembra che i Capelli della Madonna, che la tradizione  vuole che siano stati trovati assieme al Vessillo, nel 1348, all'interno di una custodia di legno dal sacerdote Giovanni Candilia, poi rinchiusi in un prezioso reliquiario, siano stati donati «nel 1545 dal Principe di Pietraperzia» che «presentò alla Vergine molti doni di gran valore, ed una croce di cristallo di molta bellezza con alcuni capelli della Vergine». Il Principe era in realtà un marchese, Girolamo Barresi, allora accusato di parricidio, nel capo del quale pendeva una condanna capitale, che poi fu eseguita, per cui si capiscono le ragioni della sua donazione, ad espiazione, quindi, dei suoi peccati.

       «Con questa reliquia nel 1545 si cominciò a fare processione nella città in ogni tre di maggio, in ricordanza del rinvenimento della Imagine» e la festa si svolgeva ogni anno «dal 1° al 3 di maggio, ma nel 1597 il cappellano sacerdote e cantore Michele Puglisi la trasferì nel 15 agosto* [...] perché i massari e la plebe nel tre di maggio trovavansi occupati in campagna a lavorare e non potevano perdere una giornata di fatica».

       Lo storico gesuita G.P. Chiarandà attesta, inoltre, che la prima processione del Vessillo del Conte Ruggero avvenne il 21 novembre 1621 e non si processionava ogni anno bensì ogni dieci anni.

       *La Festa dell'Assunzione, che ha radici antiche, risalenti già al V secolo, si celebra il 15 agosto ed è una solennità mariana cristiana che celebra l'Assunzione in cielo della Vergine Maria, in corpo e anima. 

Prof. Gaetano Masuzzo

 

 

Libro che parla anche di Piazza nel Cinquecento

 

                      Il volume recensito1

Palazzo Starrabba poi Trigona in via Umberto, 45, Piazza Armerina (EN)

Chiesa di S. Vincenzo Ferreri, Piazza Armerina (EN)

           Il libro nella foto in alto, di cui si sarebbe apprezzato l’indice, può essere considerato una sorta di radiografia della società siciliana, e in particolare della società nobiliare nel Val di Noto, tra la fine del Quattrocento e tutto il Cinquecento, per arrivare ai primi del Seicento. Tante sono le notizie e i particolari che fanno gola agli appassionati della storia e della vita sociale di quel periodo: nomi di feudi, notai, promesse di matrimonio in tenerissima età (p. 97), cruenti faide familiari (p. 64) con relative vendette e riappacificazioni, curiosi e ripetitivi cerimoniali nella presa di possesso per ognuno dei feudi ereditati (pp. 51, 85, 92, 135). Non esclusa la consuetudine di tenere, nei propri palazzi, schiavi di ogni genere, soprattutto nordafricani, sia per i lavori domestici sia per quelli pesanti, acquistati, venduti, prestati ad altri nobili, lasciati in eredità o liberati per buona condotta, concedendo loro, in qualche caso, persino il privilegio di assumere lo stesso cognome del padrone. A Noto, su una popolazione di 10.000 abitanti, quasi come quella che aveva allora Piazza3, si contavano circa 600 schiavi.
           Filo conduttore del libro è la storia di un feudo, quello di Scibini, o Xibini o ancora Dichibini, nella “marittima” di Noto (p. 25), possesso familiare della baronessa Ippolita Sortino. Esso comprendeva, nella lingua di terra prospicente il mare, detta Marzamemi, ad uso di pascolo per pecore, capre e maiali, anche un piccolo porto, come caricatore / scaricatore di derrate agricole e, nel ‘600, tonnara, chiamato dagli Arabi (Idrisi) “Marsâ ‘al Hamâm”, ovvero “Baia delle Tortore” o, per qualcuno (Sebastiano Lupo), “Porto della Colomba”, dal nome delle imbarcazioni che allora vi approdavano. In proposito, l’autore pubblica un rogito notarile del 1456, appartenuto alla famiglia Sortino, che rappresenta il più antico documento contenente il toponimo di Marzamemi (p. 26).
           Nella prima parte, si esaminano le vicende dei maggiori rappresentanti del nobile casato netino, dal barone Antonino Sortino, personaggio molto in vista e grande proprietario terriero, al suo primogenito Guglielmo, capitano di giustizia a Noto, dove fu insignito del titolo di patrizio, poi trasferitosi a Siracusa, ricoprendo la carica di giurato (pp. 23-83). Fino ad arrivare al barone Vincenzo Sortino, dal cui matrimonio con Dorotea Bellomo nacque, nel 1546, a Siracusa, l’unica loro discendente, Ippolita Sortino (p. 87). Orfana di padre, in tenerissima età, questa avrebbe sposato, poco più che dodicenne, il figlio di un barone netino, Giovan Vincenzo Zarbari (p. 107). Rimasta vedova, nel giro di due anni, per la prematura scomparsa del giovane marito (1561), non avendo ancora messo al mondo dei figli, Ippolita fu nuovamente promessa a «un ricco barone, molto più grande di lei, vedovo e padre di un bambino, originario della città di Piazza», Giovan Francesco Starrabba, al quale portava in dote nel 1563 i feudi aviti di Scibini, Bimisca e Pian di Belludia. Trentatré anni lo sposo, diciotto la sposa (pp. 112-113). Un matrimonio d’affari, si direbbe, ricercato, voluto e, soprattutto, fondamentale per l’ascesa sociale del casato piazzese degli Starrabba.
           Nobili di recente elevazione, gli Starrabba erano baroni di Spedalotto, vicino Aidone, feudo acquistato nel 1557 dai Crescimanno, per 1470 onze. Mentre, nel 1564, entreranno in possesso del feudo di Gatta, presso Piazza, pagando ai Montaperti, che lo detenevano, la somma di 7600 onze (p. 121). Entrambi questi feudi, Spedalotto e Gatta, di cui si era insignito Giovan Francesco, passeranno in progresso di tempo ai Trigona, consorti degli Starrabba.
           Nella seconda parte del libro, assurge per l’appunto a protagonista la figura, fin qui poco nota, di Giovan Francesco Starrabba. A lui si deve la costruzione del grande palazzo di famiglia (foto in mezzo), nell’antico quartiere allora denominato di San Domenico: descritto nel contratto nuziale del 21 gennaio 1563, rogato a Noto, come un «tenimentum domorum proprie habitationis», delimitato da tre strade pubbliche, dove abitavano i suoi genitori, Pietro e Costanza, ancora viventi nel 1572 (p. 114 e nota 341); un palazzo fortificato, seguendo il costume dell’epoca, i cui merli vennero alzati nel 1566 (p. 122). Situato nell’attuale via Umberto, 45, conserva intatti il portale d’ingresso, i mascheroni e le mensole che reggono i balconi.    
          Questo volume si dimostra prezioso anche per la storia di Piazza, risolvendo taluni aspetti poco chiari, se non contradittori, dalla cronologia al contesto politico e sociale, grazie a una paziente e attrezzata opera di consultazione dei tanti riveli o censimenti cinquecenteschi. In particolar modo, analizzando quello nel 1593, si è riusciti finalmente a indicare con precisione l’anno di nascita di un piazzese tanto illustre, il barone Marco Trigona, fondatore, con un suo lascito testamentario, della futura Cattedrale, riedificata sulla precedente chiesa trecentesca. Oltre le date dei biografi (Minacapelli ed altri), bisogna correggere infatti quanto riportato da più parti a proposito della sottoscrizione, nel 1555, dei Capitoli della pace di Piazza, dove venivano segnalati il barone Giovan Francesco Trigona e, erroneamente, quello che si riteneva suo figlio Marco. A quella data quest’ultimo, dovendo essere maggiorenne per firmare, sarebbe nato almeno nel 1537, mentre l’autore circoscrive, fonti alla mano, la sua data di nascita agli anni 1560/1561 (p. 122 e nota 366). Pertanto, quando egli convola a nozze, nel 1574, con Laura de Assoro, ha 13/14 anni, risultando lei, nata nel 1557, più anziana di 3/4 anni. Questo farebbe supporre che si sarebbero potuti sposare per procura.
           Fulminea l’ascesa sociale degli Starrabba, attraverso Giovan Francesco, personaggio che meriterebbe uno studio monografico, brillando di luce propria, accanto e prima di Marco Trigona. Accresciuti i suoi possedimenti feudali, «impegnandosi a pagare somme notevolissime», Giovan Francesco acquisiva dai Ventimiglia nel 1579 la baronia di Regiovanni, con sette feudi e un castello, permutata poi con la contea di Naso, in territorio messinese, comprendente il castello di Capo d’Orlando (pp. 139-141). Fulminea l’ascesa, fulminea la caduta, perché alla sua morte, nel 1592, i suoi figli non poterono evitare la bancarotta, vedendosi costretti ad alienare tutti i feudi di famiglia, gravati da debiti che risultò impossibile soddisfare. Lo spregiudicato Giovan Francesco aveva fatto il passo più lungo della gamba e, a stento, Pietro Starrabba riuscì a riscattare le tenute avite di Scibini e Bimmisca, mentre suo cugino Antonio Trigona, fratello maggiore di Marco, si impossessava dei feudi di San Cosmano e Gatta, insieme alla “honoratissima casa” di Piazza degli sfortunati congiunti (pp. 150-157).
           Questo volume, ricchissimo di dati e suggestioni, ci dà lo spunto per approfondire le nostre conoscenze sulla chiesa di San Vincenzo Ferreri (foto in basso), primo dei sei compatroni della città di Piazza: fondata col contributo degli Starrabba, essendo situata nelle vicinanze del loro palazzo, e della quale certamente essi detenevano il diritto di patronato. E infatti le armi di questa famiglia si ritrovano, oltre che nel timpano dell’abside, in alto, sopra l’altare maggiore, nei due stemmi sul soffitto della chiesa, come pure sul marmoreo monumento funebre di Giuseppe Starrabba, figlio di primo letto di Giovan Francesco: anch’egli conte di Naso, dopo soli otto mesi aveva dovuto rinunciare al titolo ereditato dal padre, adducendo «gravissima infirmitate cum maximo periculo eius vite» ma, in gran parte, per le difficoltà finanziarie e gestionali, in favore del fratello minore Raffaele che, caduto in disgrazia per un’accusa di omicidio, si vide confiscata, nell’agosto del 1594, la contea che fu alienata definitivamente nel marzo del 1595 (pp. 151-155). 

Gaetano Masuzzo

1 La recensione si trova sulla Rivista della Società di Storia Patria della Sicilia Centro Meridionale, Anno VIII, p. 255.
                                                        
2 Antonello CAPODICASA, Il feudo di Scibini nel Cinquecento e le nobili famiglie Sortino e Starrabba, Associazione Studi Storici e Culturali Editore, Pachino (SR), 2021, pp. 239. L'autore, originario di Pachino, da diversi anni si dedica alla ricerca storico-archivistica prevalentemente rivolta allo studio dei territori di Pachino, Portopalo e Noto. Ha pubblicato Il forte di Capo Passero (2007), Torre Fano (2009), Storie di Noto Antica tra XV e XVII secolo (2015), Storia antica di Porto Palo (2016). Attualmente è Presidente dell'Associazione Studi Storici e Culturali di Pachino (SR).

3 Come veniva chiamata Piazza Armerina sino al 1862.

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