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Cronarmerina - Settembre 2021

Monte Naone o Navone?

MONTE NAONE o NAVONE?

Il 29 agosto 2021, mentre si elencavano le attività nel Gruppo Archeologico “L. Villari” di Piazza Armerina, mi sono inserito con questo breve intervento:

«Per quanto riguarda le attività del Gruppo Archeologico, mi fa piacere ricordare di essere stato coinvolto, dal 2018, in diverse passeggiate istruttive per le vie della città come “cicerone nostrano”. Niente di eccezionale, ma ci è servito per conoscere un po’ la storia, anche quella con la esse minuscola, del nostro centro abitato. Accanto agli avvenimenti memorabili ho simpaticamente inserito anche aneddoti personali, che hanno coinvolto tanto i compagni di viaggio. Così facendo, abbiamo conosciuto un po’ meglio i nostri beni storici sparpagliati per le vie della città, quanto meno li abbiamo individuati in questo grande museo a cielo aperto, come è avvenuto con un altro reperto, oltre ai 5 presenti in questo sito (il chiostro del Collegio dei Gesuiti), di cui ho parlato l’altro giorno durante la commemorazione dello storico piazzese generale Litterio Villari. Si tratta della scultura in pietra della Culòvria cavalcata da un putto, posta in quell’angolo a destra, proveniente dalla fontana/abbeveratoio ottagonale che c’era prima, al posto del distributore di benzina alla Taccura.  La Culòvria, grossa e lunga biscia non sempre velenosa di acqua dolce, in italiano Còlubro lacertino, è stata volutamente confusa, nei racconti spaventosi degli anziani ai nipoti, con la Biddìna, termine arabo che indica un mostro terribile con bocca e occhi rossi, un piccolo drago o serpente d’acqua di diversi metri, con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Concludo, prima con l’augurio di ripetere queste simpatiche esperienze al più presto, poi precisando che il sito archeologico di Monte Naone, chiamato nei secoli anche Anaor, Avator, Anator, Nonimna, Noymna, Nomai, Naona, Nauno, Nauni, Naonis, Nacone, fu chiamato così sino al 1927 quando, per la legge fascista di quell’anno, avente come fine l’italianizzazione della toponomastica con l’intento di diffondere la lingua italiana, intervenendo così sull'uso del dialetto di gruppi linguistici con diversa madrelingua, gli venne dato quello di Navone. Quindi, il nostro “Naone” fu inteso come termine “dialettale o straniero” da tradurre con l’italiano “Navone”, che nulla aveva a che fare con la storia e la geografia del sito. Sarebbe auspicabile, quindi, riproporre sempre l’antico nome di “Naone”».
Prof. Gaetano Masuzzo

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Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

Il volume Super Physicam Aristotelis del 1494, Biblioteca Comunale, Piazza Armerina

Un po' de "Il nome della rosa" in Biblioteca

In una teca della “Mostra del Libro antico” presso la Biblioteca Comunale “Alceste e Remigio Roccella” di Piazza Armerina, fa bella mostra, tra i tanti volumi esposti, un volume che attrae subito l’attenzione dei visitatori, sia per l’antichissima rilegatura “in mezza pelle su assi di legno” dove sono rimaste, nel margine di dx, persino gli incavi dov’erano poste due cerniere, che dovevano servire a tenere chiuso il volume agganciandosi con quelle sottostanti; sia per l’anno “1492” scritto a mano nella parte superiore della copertina, poco sotto quello che sembra il titolo abbreviato o la categoria archivistica in caratteri gotici medievali: "Och.rz.fi.lib.phico". A questo punto ci viene in aiuto la didascalia “d” che accompagna il volume nella teca n. 3: si tratta del volume di Guillelmus de Ockam, Super Physicam Aristotelis, Correxit Marcus Alexandreus, Bologna, Benedetto Faelli, 13 dicembre 1494, legato con altri due incunaboli e alcune pergamene scritte, provenienti da San Pietro di Piazza, cioè dalla chiesa e convento dei Francescani Osservanti.

Cerco di chiarire meglio: Marcus Alexandreus, alias Marco da Benevento (1460/65-1521/25)¹, monaco benedettino dei celestini, faceva stampare a Bologna, nel dicembre del 1494, il commento di Guglielmo di Ockham alla fisica aristotelica sulla natura dal titolo Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis, per dargli il dovuto rilievo riproponendolo (correxit) dopo tanto tempo. L'edizione era dedicata al filosofo e medico Alessandro Achillini (1461/63-1512), suo insegnante a Bologna, dal quale Marco dichiara di essere stato spinto a riportare alla luce la "sottilissima" fisica del francescano inglese Guglielmo di Ockham², un filosofo troppo a lungo confinato nelle tenebre. In questo modo Marco confermava la sua volontà di percorrere una diversa via filosofica, passando dalla tradizionale formazione scolastica alle dottrine logiche “moderne” sostenute dai “nominalisti” di Oxford³ un secolo e mezzo prima. Per quanto riguarda l’anno 1492 scritto sulla copertina di legno, si può supporre che sia stato un errore nella lettura dell’anno riportato, forse, all’interno, durante una delle tante ricollocazioni cronologiche o disciplinari.

Cercando notizie su Guglielmo di Ockham, ho trovato che il filosofo francescano inglese fu di ispirazione a Umberto Eco per il personaggio di Guglielmo da Baskerville, protagonista del romanzo Il nome della rosa, interpretato da Sean Connery nell'omonimo film del 1986 per la regia di Jean-Jacques Annaud. Guglielmo di Ockham, citato spesso da Guglielmo di Baskerville, che nel film era un eruditissimo frate francescano inglese del XIV secolo, consigliere dell'Imperatore e con un passato come inquisitore, veniva considerato insieme a Tommaso d'Aquino e a Giovanni Duns Scoto, come uno dei più importanti esponenti della filosofia medievale, e come il suo omonimo letterario fu vittima della peste4. Guglielmo di Baskerville alla fine del libro, e del film, "chiede di poter leggere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, unica copia esistente in tutto il mondo. Jorge acconsente, ma Guglielmo si mette un guanto, poiché sa che le pagine del libro sono avvelenate. Il mistero è così chiarito: Jorge era il colpevole di quelle morti ed è stato lui ad avvelenare le pagine del libro, in modo che chiunque le leggesse trovasse una morte certa. Questi, capendo di essere stato scoperto, si dà alla fuga, portando con sé il libro e venendo inseguito dai due monaci. Guglielmo gli chiede perché abbia fatto tutto questo e Jorge rivela di aver sempre avuto in odio il libro di Aristotele, in quanto il riso, in esso trattato, uccide la paura e senza la paura non può esserci fede in Dio: se tutti, infatti, apprendessero dal libro che è possibile ridere di tutto, anche di Dio, il mondo precipiterebbe nel caos"5.

¹ <https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-da-benevento_%28Dizionario-Biografico%29/> (ultima consultazione 11/9/2021).

² Occam (o Ockham), Guglièlmo di. - Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° - m. 1349 o 1350). Entrato nell'ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni (<https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-di-occam/> u. c. 11/9/2021).

³ Guglielmo di Ockham – Manuale di storia della filosofia medievale, www3.unisi.it (u. c. 11/9/2021).

4 <https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_da_Baskerville> (u. c. 11/9/2021).

5 <https://it.wikipedia.org/wiki/Il_nome_della_rosa_(film)> (u. c. 19/9/2021).

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Origini di Piazza per il Villari

Le origini della città di Piazza Armerina secondo il generale/storico Litterio Villari:
                                                    "LE TRE SEDI"

Buona sera a tutti i presenti. Mi sento molto lusingato per essere stato invitato dal prof. Salvatore Lo Re, a parlare sulle origini di Piazza secondo il generale Litterio Villari a cent’anni dalla sua nascita, quindi nato nel 1921, perciò coetaneo di mio padre Gino, il quale mi raccontava che nel 1943 tutti erano convinti che la loro classe, quella del ’21, avrebbe risolto vittoriosamente la guerra.

Prima di tutto desidero cogliere l’occasione per ringraziare, ancora una volta e attraverso il figlio Pier Luigi, l’autore del libro che mi ha fatto scoprire innumerevoli notizie su Piazza e i suoi abitanti, lasciandoci in eredità un lavoro di inestimabile valore, da considerare in futuro come pietra miliare per tutti coloro che vogliono avvicinarsi alla storia locale come ho fatto umilmente io.

Poi, per non venire meno alla mia attitudine di cicerone amatoriale, non posso non accennare ai 5 reperti rari e prestigiosi sotto gli occhi di tutti in questo seicentesco chiostro dei Gesuiti. Magari si viene qui per tante ragioni e non si conosce né la loro presenza né il loro valore. La nostra Piazza oltre ad avere, da ieri, un Museo al chiuso, è da sempre un Museo a cielo aperto, basta osservarlo, conoscerlo, apprezzarlo e tutelarlo.  
-Qui si trovano gli unici due stemmi reali esistenti a Piazza, risalenti ai primissimi anni del Cinquecento e che si riferiscono a re Ferdinando II d’Aragona il Cattolico, quello che sovvenzionò la scoperta dell’America qualche anno prima; li troviamo in marmo lungo questo portico.
-Tra i due stemmi c’è una lapide commemorativa in marmo del 1731 e si riferisce al 2° Santo Compatrono della Città, dei sei complessivi, il teatino Sant’Andrea Avellino. Il Santo e l’altro teatino, San Gaetano di Thiene, altro compatrono della città, sono raffigurati nelle due statue ai lati del portone d’ingresso della chiesa dei Teatini.
-Sopra la porta d’ingresso alla biblioteca si può notare la grande epigrafe in marmo che riporta in latino una Bolla Papale del 1618, che comminava persino la scomunica a chi avesse causato dei danni alle migliaia di volumi dei frati francescani delle chiese di San Pietro e di Santa Maria di Gesù.
-Per finire, vi segnalo, nascosti qui in un angolo, tra l’oblio e il disinteresse, i resti del portale d’ingresso della seicentesca chiesa di Sant’Agata con relativo monastero delle Benedettine, abbattuta definitivamente negli anni Trenta per far posto al famoso Piano Balilla per l’addestramento, il sabato, dei giovani fascisti.    

Adesso passo al motivo per cui sono qui.

Il generale Litterio Villari in tutte le quattro edizioni (1973, 1981, 1987 e 2013) della sua opera “La Storia della città di Piazza Armerina”, per quanto riguarda le origini della nostra Città, si rifà grosso modo alle tesi di 8 storici precedenti, di cui 6 piazzesi: Francesco Negro, Antonio il Verso e Francesco Cagno del Cinquecento, Giovanni Paolo Chiarandà e Marco Alegambe del Seicento e il sacerdote Filippo Piazza del Novecento e degli altri 2 non piazzesi, il netino Rocco Pirri del Cinquecento/Seicento e il catanese Vito Amico del Settecento.

Eccovi brevemente la sua tesi alla quale dedica, nell’ultima edizione, tutto il I Capitolo di ben 74 pagine per parlarci delle 3 sedi originarie di Piazza. Sintetizzando il capitolo, egli pone le più remote origini dei nostri diretti antenati, tra il XIII e il X secolo a.C., quando i Sicani, sospinti dai Siculi dalla Sicilia orientale verso quella centro occidentale, diventano i più antichi abitatori nelle nostre contrade dell’alta valle del fiume Gela e di quella del fiume Braemi.
Essi praticano l’agricoltura e la pastorizia nelle loro piccole città, tra queste c’è quella che si può ritenere la culla delle nostre origini e, quindi, la PRIMA SEDE, Ibla, in cima al Monte Naone (mai da lui chiamato Navone), a 10 km a sud-est dall’attuale Piazza, verso Barrafranca, a quasi 750 metri sul livello del mare, monte considerato dall’archeologo Orsi «una vera piramide isolata».

È chiamata Ibla per un tempio dedicato a una dea adorata su queste colline e per il nome del fiume che la fiancheggia a nord, il Braemi, anticamente chiamato Ibleo. Lo stesso nome del Monte, Naone, in greco vuol dire “tempio”, quindi potrebbe essere chiamato Monte del Tempio. A questo nome è aggiunto l’appellativo Erea, perché situata sui Monti di Hera, dove viene adorata la dea indigena Hera.
Nei secoli VII e VI a.C. la piccola città di Ibla respinge i tentativi di penetrazione dei Rodio-Cretesi, nel V secolo a.C. subisce assedi dal tiranno di Gela, rinuncia alla lega dei Siculi di Ducezio e si difende dagli Ateniesi; nel 280 a.C. assiste alla campagna campale fra Iceta e Finzia nell’ampia conca del fiume Braemi, si ribella per l’indipendenza contro i Romani nel 212 a.C., ma poco dopo la si ritrova tra le città decumane visitata dai sacerdoti di Delfi, probabilmente perché vi si adora la dea Artèmide, dea della caccia e della foresta. Intorno all’anno 100 a.C., la reazione dei Romani alla seconda rivolta delle Guerre Servili, distrugge tutte le città dell’acrocoro ereo, compresa la nostra Ibla, la cui popolazione è costretta a trasferirsi dall’alto della montagna in un piccolo insediamento rurale nella zona pianeggiante sottostante, verso il fiume Gela che scorre a circa 2 km verso est. Qui si trova la SECONDA SEDE.

Da questo momento le notizie sulla Ibla Interna diventano sporadiche e incerte: Strabone e Plinio, nei primi decenni dell’era cristiana scrivono di Ibla solo per ricordare il suo squisito e famoso miele; nel II secolo d.C. Tolomeo, nella sua Geografia, parla di una Ibla al centro della Sicilia, vicino a Enna e a nord della Gela mediterranea chiamata Filosofiana, poi ritrovata nell’odierna contrada Sofiana.
Nel frattempo sul Monte Naone, intorno al tempio, rimangono poche case, forse abitate da sacerdoti e inservienti, che costituiscono il nucleo di un borgo bizantino, che gli Arabi, secoli dopo, chiameranno Anaor, nel rispetto della toponomastica precedente.
Nel VI secolo d.C. Ibla Erea o Minore, come la chiamava il geografo greco Stefano Bizantino, per distinguerla dalla Maggiore nei pressi dell’attuale Paternò e dalla Megarese nel golfo di Augusta, è chiamata in greco Ibla Elattòn cioè “minore”. Lo stesso geografo greco quando trascrive un antico passo attribuito a Filisto, storico siracusano vissuto a cavallo dei secoli V e IV a.C., lascia notizia di tre antichissime Ible, tra le quali una di nome Ibla STIELA. Alcuni decenni fa dei tombaroli hanno rinvenuto sul Monte Naone, in due distinti periodi, delle monete dove si leggono STIA e STI risalenti all’ultimo decennio del V secolo a.C., che dimostrerebbero, appunto, l’occupazione del sito in quel periodo.

Nel IX secolo, al tempo della conquista araba, in uno scritto dello storico arabo ‘Ibn’al’Atir, troviamo la città di Ab.là tra le città che si ribellano contro gli Arabi nell’860, e la conferma della sua esistenza si trova nella carta geografica dell’arabista palermitano Michele Amari e del geografo francese Auguste Henri Dufour, comparata con quella araba di Idrisi dell’XI secolo. Ab.là è situata a nord di Garsiliato e a 15 miglia a est di Pietraperzia, quindi ai piedi di Monte Naone, nella nostra contrada Casale e attigua alla Villa Romana, nei pressi del fiume Gela, a 476 metri sul livello del mare.

Inoltre, nell’edizione ottocentesca di Michele Amari il nome del centro abitato è trascritto tale e quale si trova nel testo arabo di Idrisi del 1160, ‘Iblatasah, letteralmente Ibla Fresca che identificherebbe l’Ibla Gereate o Minore, in greco Ibla Elatson, di Pausania, pertanto ‘Iblatasah sarebbe la traduzione in lingua araba di Ibla Elatson.
Quindi, durante il periodo arabo e all’arrivo dei Normanni nel 1061 esiste questo villaggio o borgo fortificato chiamato ‘Iblatasah, nei pressi della Villa Romana.
Due anni dopo, nel 1063, i Normanni sconfiggono a Cerami i Saraceni. È in questa occasione che il pontefice Alessandro II consegna uno stendardo di seta al cavaliere lombardo Meledio come vessillo di guerra da consegnare al conte Ruggero I d’Altavilla. Tredici anni dopo, nel 1076, truppe gallo-italiche o lombarde, originarie del nord-ovest dell’Italia (provenzali, liguri e monferratini), scendono in Sicilia per combattere i Saraceni assieme al Gran Conte per spirito di avventura e per possedere terre e castelli, occupando così i Monti Erei nei posti chiave, per impedire la riunione delle forze arabe di Noto con quelle di Butera e di Kars Jani. Proprio sulle alture intorno all’araba ‘Iblatasah, ad Aidone e a Mongiolino nei pressi di Mineo, il Conte vi distacca un raggruppamento lombardo per intervenire tempestivamente, se allertate, verso Catania, verso Gela o verso Noto. Così nascono gli accasermamenti di Rossomanno, Mongiolino, Rambaldo, Polino, Comicino, Eliano, Garsiliato e Aidone, che danno origine alla dizione di “Monti della Lombardia”, mentre l’araba ‘Iblatasah è chiamata con disprezzo il “Casale dei Saracini”.
Dopo quasi un ventennio il conte Ruggero, avendo conquistato Butera con l’ausilio delle truppe lombarde, dona il Vessillo, ricevuto nel 1063, agli abitanti dei borghi lombardi che lo custodiscono in quello più importante e sede del comando di Rambaldo, a un chilometro verso nord dall’odierna Piazza. Inoltre, il Conte riceve nel 1089, insieme alla terza moglie Adelasia dei Marchesi del Vasto Monferrato e di Savona, rinforzo di cavalieri provenienti dal Piemonte Meridionale e dalla Liguria. È in questo periodo che il Conte decide di incrementare gli accasermamenti di soldati lombardi, con formazioni di vere e proprie colonie provenienti dalla Lombardia, nei borghi fortificati sopracitati, per meglio controllare la popolazione araba e greca.
Alla fine dell’XI secolo (per essere chiari tra il 1090 e il 1099), ‘Iblatasah diventa il borgo guida e capoluogo, dando il nome a tutta la circoscrizione comprendente la vera e propria ‘Iblatasah e tutti gli altri casali arabi e borghi lombardi circostanti. Con l’arrivo dei coloni lombardi e di un’imponente massa di popolazione dal “Tema Bizantino”, inizia il processo di italianizzazione e rilatinizzazione e la voce araba ‘Iblatasah è grossolanamente tradotta, con la mediazione del greco medievale Platza, nel latino medievale Plăcea o Plăcia che troviamo in alcuni diplomi di quel periodo.
Dopo la morte del conte Ruggero nel 1101 e dopo la reggenza della di lui vedova, Adelasia, diventa, nel 1112, re il loro figlio Ruggero II, che tenta in tutti i modi di affezionare alla dinastia normanna le popolazioni arabe, greche e italiche, contro la tendenza della nobiltà, prevalentemente normanna, che aspira alla completa indipendenza nei feudi e nei castelli. Durante i decenni successivi molti feudatari delle Puglie e della Sicilia si sollevano compatti contro il successore di Ruggero II, il figlio Guglielmo I il Malo. Nel governo dei Lombardi, invece, dopo Enrico Aleramico, cognato e genero del Gran Conte, succede il secondogenito di Enrico, il conte Simone. Un figlio illegittimo del conte Simone, Ruggero Sclavo, e il figlio illegittimo di Guglielmo I, Tancredi d’Altavilla, nel 1160 guidano la ribellione delle colonie lombarde di Piazza e Butera contro il potere del Re. La ribellione di intere province del regno è il frutto del desiderio di autonomia, della voglia di aver più peso sugli affari di Stato, dell’orgoglio di schiatta e della politica di concessione da parte del sovrano di non poche libertà agli Arabi, per essersi dimostrati dei sudditi assai fedeli e utili all’amministrazione dello Stato. Tali motivi sollecitano le preoccupazioni e le invidie dei grandi feudatari e delle colonie lombarde, ma le ribellioni, anche se prontamente domate, portano a una congiura di corte e all’insurrezione che sfocia nel massacro della maggior parte degli Arabi delle nostre zone. Tale grave avvenimento convince il Re a piombare, nella primavera del 1161, con un esercito di Normanni e Arabi, prima su ‘Iblatasah e i casali lombardi circostanti, saccheggiandoli e distruggendoli totalmente, poi su Butera, assediandola e venendo a patti.
Ruggero Sclavo, Tancredi d’Altavilla e gli altri insorti lombardi ottengono salva la vita ma devono emigrare al di là dello stretto. Tornato a Palermo il Re costituisce due corpi di spedizione per combattere i ribelli che, nel frattempo, erano insorti nella Terra di Lavoro, in Calabria e in Puglia. In un corpo di spedizione si arruolano i volontari lombardi di Piazza, che si coprono di gloria a Taverna, vicino Catanzaro. Questo glorioso comportamento convince il Re a emanare il decreto di costruzione di una loro nuova città a spese dello Stato e con privilegi demaniali. A questo punto il Villari riporta quello che aveva scritto secoli addietro il concittadino storico gesuita Chiarandà: “nel 1163 fu dato incarico al baiulo e ad altri 8 deputati di costruire una nuova città con le stesse pietre della città distrutta, sopra il Colle oggi detto Monte, con lo stemma aleramico condiviso con la città di Savona”. Che sarebbe la TERZA e attuale SEDE.
Non posso non concludere esprimendo qualche perplessità. Non è chiaro quale fosse questa città distrutta: l’araba ‘Iblatasah altrimenti chiamata Casale dei Saracini, a 3 km di distanza da quella nuova? Il borgo sede del comando lombardo, Rambaldo, a 1 km a nord dalla città nuova? O, come pensano alcuni, si trovasse già dove oggi si trova il quartiere Monte, attorno a un piccolo castello, il “valido fortilizio” di cui parla Idrisi, dove si svolgeva “un mercato molto frequentato” per vendere o barattare le abbondanti produzioni del suolo nel piano sottostante, chiamato in greco Platus-Plateia che vuol dire esteso, largo, vasto, piano di uso pubblico, dal quale deriverebbero i nomi trovati nei diplomi: Platea del 1122, Platza del 1142 o Plàcea del 1148-1151, cioè Piazza? Spiegazione quest’ultima condivisa e avallata dal prof. Ignazio Nigrelli, l’altro grande storico piazzese coevo al Villari, che ipotizzava anche che il sito della primitiva Piazza potesse trovarsi a Rambaldo.
Soltanto le fonti storiche lette con cura, i nuovi studi e, soprattutto, i nuovi ritrovamenti archeologici, ci potranno aiutare a districare questi nodi, e vi posso confermare che io e il professore Salvatore Lo Re ci stiamo provando da qualche anno. Purtroppo il Covid ci ha solamente rallentati ma non fermati, quindi arrivederci a presto e grazie.

Prof. Gaetano Masuzzo

cronarmerina.it

 

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