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Cronarmerina - Dicembre 2015

Terremoto e altri guai al Casale

Lavori alla Villa Romana anni '50


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Nel 1169, quindi dopo sei anni dalla riedificazione di Placia sul nuovo sito del monte Mira, un violento terremoto colpisce Catania e Messina e numerose zone interne della Sicilia. E’ proprio in questo periodo che si riscontra il fenomeno di abbandono del vasto centro abitato medievale della Villa del Casale, in quel periodo presidio affidato ai Saraceni fedeli a Guglielmo il Malo (per questo chiamato anche "Casale saraceno"). Il degrado è dovuto innanzitutto dalla depressione demografica e poi dallo spopolamento delle campagne, a cui si aggiungono cause naturali come forti alluvioni e il terremoto del 4 febbraio di quell’anno. Inoltre, qualche decennio dopo, nel 1194, dopo le conquiste di Randazzo, Paternò, Palermo, Caltagirone, Aidone e di altre numerose città,  il borgo del Casale subirà la distruzione quasi definitiva da parte di Bonifazius, marchese del Monferrato, alla guida delle truppe di Enrico VI di Svevia.
 
Gaetano Masuzzo/cronarmerina 
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1877 Carnevale del poeta Roccella

Peppe Nappa (maschera siciliana)

Ultimo giorno della festa, il poeta piazzese ci fa sapere come si vestivano per Carnevale i nostri antenati nel 1877

L’URT’M GIÖRN D’ CARR’VÈR

 
… E p’nzànu d’anneggh’ mascaràdi
v’stenn’s accuscì:
Brasi, Pul’c’nedda,
e s’ n’scì d’föra a cam’sgèdda,
ch’era nzunzàda
ddórda e caiàda
nû pataréu.
E non avenn nent p’ capèu,
s' fés mb'rr'ttìngh
 
cu döi pezzi d’ véggh’ mussulìngh.
E Mariu s’ v’stì Santiliporti¹
p’gghiànn nî mài
na cuffétta cui förmi e cui gammai;
S’ mës na caièlla²
cu i gömmi r’p’zzàdi
‘mpara d’ scarpi végghi
d’zzà e d’ ddà sfunnàdi.
E s’ mës ‘ncacciott senza fönn
ch’ davvèru parëa ‘mbava d’ cönn.³
‘Ntòni, ch’era ‘ngattà nfina nî zëgghi,
s’ fés caudarèr.
Vitu cu so mugghier
m’ntenn’s na rìsta* p’ cavégghi,
s’ v’stinu conzalèmmi.
E p’gghiann piatti rötti
p’gnatti, cannàti e nz’rötti,
m’nzalóri, muti e lemmi
p’sciaröi e taganétti,
n’incìnu a cöma quattr cavagnétti.
Dop, cû fum s' t'nz'nu i goti
striànn i mai nû cù d’ na p’gnatta,
e sautànn e tr’pànn, a quattr boti
s’ viànu nâ strata…
 
Remigio Roccella  - 1877 
(1819-1916)
 
¹ Cognome di un calzolaio, protagonista di un'altra poesia dell'autore;
² Giubba;
³ Uomo da nulla;
* Copricapo erbaceo intrecciato. 
Chi vuole può leggersi la mia traduzione.
 
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1820 Turista Auguste de Sayve

Tra i visitatori più importanti della nostra Città nel XIX secolo, troviamo il francese Auguste de Sayve (1790-1854) e ci fa sapere che nel 1820 ca. <<…essa era situata a qualche distanza dalla città moderna. Se ne vedono dei resti insignificanti, che consistono in basi di mura ed in alcuni mattoni, in una località chiamata Casali, presso la montagna Filosofiana, a una lega da Piazza. La città attuale, che ha circa 12.000 anime di popolazione, è molto graziosa… I suoi dintorni sono molto gradevoli… così la fertilità di queste campagne ha fatto dare alla città il soprannome di Opulentissima>>. A proposito di questo viaggio in Sicilia, ho pescato questo articolo della giornalista Leda Melluso <<Auguste de Sayve ritornò a Parigi con una pulce in testa: perché neppure una parola, una sola? Ciao, riverisco, sabbinirìca. Niente. Mentre cavalcava alla volta di Castelvetrano, in una di quelle giornate afose che più non si può, il francese osservò un uomo seduto sul bordo della strada. Bastò quello sguardo forestiero per fare alzare di scatto il siciliano che con una mano indicò al viaggiatore il sole che, alto nel ciel, ruggiva più che mai, e con l'altra gli offrì un orcio di vino. "Ma che caldo fa in Sicilia! Ma che giornata di scirocco! Dalle nostre parti succede spesso. A quest'ora è meglio non mettersi in cammino. Si beva un po' di vino che si rinfresca. Questo vino è buono e lo faccio io...". Tutte queste cose le avrebbero dette un ligure o un lombardo. Ma un siciliano no! Il siciliano era muto come un pesce. Che fa a questo punto lo straniero? Ammutolisce pure lui ed è logico perché uno si sente un cretino a parlare con chi è tanto sicuro di sé che disprezza anche la parola. Non restò altro da fare a De Sayve che prendere alcune arance che teneva dentro un sacco sul davanti della sella e darle a quell'uomo che se ne andò tutto contento. E in silenzio>>.

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Porte della Città/Vallone di Riso

Sotto la scalinata si intravede una porta murata
Angolo via Costa Vallone di Riso - Via Campagna S. Martino
Questa è la VII e ultima porta della Città, che ho individuato grazie sia a una delle due antiche piante della città del 1689 e sia al sito che vedete nelle foto. Si tratta della Porta Vallone di Riso che immette, salendo la scalinata, direttamente nella via omonima, o meglio, è la via Vallone di Riso che mi ha fatto chiamare la porta in questo modo, non avendo altri riferimenti. Oltrepassando questa porta ci si trovava direttamente sulla via che portava in quella che era chiamata via Madonna della Facciranna e, dal 1510, quando arrivarono i Padri Agostiniani, via Madonna della Stella, oggi Antonio Crescimanno (l'antico nome si legge appena sul cantone con la via Mandrascate). La strada, parallela alla principale via Monte, conduce nella piazza delle Scuole Elementari della "Trinità", a un passo dal Castello Aragonese (poi carcere) e da Piazza Duomo. Questa doveva essere la porta di accesso più prossima alla valle sottostante dal versante Sud-Ovest dell'abitato e si trovava a ca. 150 metri dalla Porta Catalana e a ca. 350 metri da quella di S. Martino. Anche se vicina alla valle piena di Orti, doveva essere tra le più difficili da oltrepassare dai nemici in caso di attacco, infatti in quel tratto le pendici sono abbastanza alte e scoscese. Nelle foto si intravede in maniera molto chiara la forma di una apertura, ma non è sicuro che si tratti dell'antica porta. Ma è certo che dalla grandezza, doveva trattarsi di un varco di una certa importanza, forse per il passaggio delle acque più o meno reflue o, come mi piace credere, della VII porta della nostra Città, Porta Vallone di Riso.    
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Oggi W Sant'Àita

Quadro di S. Agata rubato dalla chiesa di S. Pietro
Statua di S. Agata proveniente dall'ex chiesa, in Pinacoteca Comunale
Il culto di Sant'Agata a Piazza, come in tutta la Sicilia risale al III secolo, sin da quando la giovane nobile siciliana rifiutandosi di ripudiare pubblicamente la propria fede cristiana, fu processata, fustigata, torturata con lo strappo delle mammelle con le tenaglie e, infine, sottoposta al supplizio dei carboni ardenti, che la portarono alla morte il 5 febbraio 251. Al tempo dei Bizantini, 540 d. C., già nel nostro territorio si hanno cappelle o piccole chiese dedicate alla Santa, per esempio in una contrada nei pressi di Mirabella Imbaccari ne esiste una che poi le darà il nome "Gatta". Nel 1334, Bonadonna e la figlia Graziana Sparavayra, nobili piazzesi, fanno costruire la chiesa di S. Agata a poche decine di metri dalla chiesa di S. Maria Maggiore al Monte. Due secoli dopo, nel 1530, la baronessa Costanza Colomba del Polino decide di trasformare il suo palazzo confinante con la chiesa di S. Agata in Casa di Ritiro spirituale per pie signore sotto il titolo della Santa. Nove anni dopo si trasforma in Monastero sotto la regola di S. Benedetto (il III della Città). Dopo più di tre secoli, nel 1879, le suore del Monastero sono costrette a trasferirsi presso l'altro di S. Giovanni Evangelista, per la pericolosità delle fabbriche del loro edificio che passa in custodia del Comune. Nel 1885 il sindaco Antonino Crescimanno, fa approvare una delibera con la quale essa viene destinata a pinacoteca e museo comunale. Restituita al Vescovo, molte delle opere d'arte in essa contenute, sono trasferite in Cattedrale e finalmente, nel dicembre del 2011, con l'apertura della Pinacoteca Comunale in via Monte, nell'ex Monastero della Trinità, possono essere nuovamente ammirate. La chiesa e il monastero, invece, sono demoliti nel 1930, per dar luogo al "chianu Balilla" destinato dalle autorità fasciste a piccola piazza d'armi per l'istruzione paramilitare dei Balilla e Avanguardisti. Tutti sappiamo che S. Agata è la patrona di Catania, ma è anche una delle quattro Sante patrone di Palermo, in particolare di uno dei quattro quartieri storici della città, la Kalsa, Mandamento Tribunale (dove c'è il Palazzo Steri sede del "Tribunale dell'Inquisizione", oggi Università).
 
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Carnevale di Tanino

Carnevale anni '60

Ho ricevuto da Tanino Platania questa poesia tratta dal suo libro “Pènz e di” che parla del Carnevale a Piazza: “U Carr'vèr a Ciàzza”.

Il Carnevale a Piazza Armerina prima del 1904 aveva la sua valenza carnascialesca poi, quando i fatti politici tra “casciniani e marescalchiani” degenerarono durante il carnevale di quell’anno, al punto da registrare dei morti tra i dimostranti mascherati, il carnevale a Piazza non ha trovato più quello spirito di una volta, anzi nel freddo febbraio le scuse sono belle e pronte: non abbiamo tradizioni, non muvöma né testa e né panza e, se qualcuno si dovesse adoperare nel tentativo di riportarlo in auge…
 
U CARR’VÈR A CIÀZZA
 
Tra i fèsti ciù beddi d’ l’ann,
u carr’vèr s’ r’campa zzà, frédd ognadann.
 
Còm sèmpr, non ggh’è r’zètt:
s’  fa o nan s’  fa  u sch’tt’cchiètt?
 
 cu vò cum’nzè,
ggh tagghianu i pè:
 
non avöma né stùdi né usànza
non muvöma né testa né panza
 
Cû Capùt(1) e cû Föntàna,(2)
ggh’era spàss p’ ‘na s’màna.
 
S’ aöi,  còm aöi, ggh’é ‘n Totò Abati,(3)
ch p’ Ciàzza s’ vò sbrazzè com a ‘n frà,
 
e ch’ vò ballè ‘mpùru cu ‘n pè,
p’rchì u carr’vèr ggh’ l’avöma scunzè?
 
U brìu unna vigna è?!
 
                                            Tanino Platania
 
1) Ernesto Caputo, poeta dialettale di allegra compagnia
2) Alfredo Fontana, si accompagnava spesso all’amico Caputo in spassose scenette. 
3) Salvatore Abate, cittadino  attivo nell’organizzare feste di quartiere.
 
Traduzione
Il Carnevale
Tra le feste più belle dell’anno,/ il Carnevale arriva “freddo” ogni anno,/ come sempre non c’è mai la sicurezza che si possa festeggiare./ (E  ci  si chiede) Si festeggia o non si festeggia?/ A quelliche vorrebbero festeggiarlo/
gli fanno perdere l’entusiasmo: /(dicendo: …Non abbiamo una tradizione…/…Perché  ballare?…Lasciamo perdere/
(In tempi passati) Con  Ernesto Caputo e con Alfredo Fontana,/ c’era allegria per una settimana./ Se, oggi come oggi, c’è un  Totò Abate,/ che per Piazza si prodiga/ e che vorrebbe ballare anche  su  un piede/ (mi chiedo) perché la festa del  “Carnevale”  gliela dobbiamo rovinare ?/ Il  brio… dove sta?
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Carnevale a Piazza

Quando si ballava nelle case
 
"Giovani" mascaràdi anni 50
 
Prima dell'avvento delle discoteche o dei locali più o meno privati, i giovani di belle speranze non stavano con le mani in mano. Mentre nel periodo di carnevale ci si organizzava nelle case (foto in alto), con la gente seduta a giro, che vedeva ballare i più o meno giovani, in attesa dei mascaràti e tentare di riconoscerli, durante gli altri mesi si poteva frequentare qualche sala da ballo. A Piazza negli anni 40, di sale da ballo, molto spoglie e con l'arredamento al minimo, ridotto a poche sedie (tanto si doveva ballare!), ce n'erano due. Qui l'impianto musicale e di amplificazione (come si chiama ora) era affidato a pianoforti a rullo e a manovella. Le sale da ballo si trovavano una a metà della via Umberto, dove il gestore-deejay era un certo signor Giuffrida che, per il possesso di un carretto siciliano trainato da un cavallo super addobbato, era chiamato "Sètt p'nnàcchi". L'altra sala era in via Mazzini, dove oggi c'è un negozio di abbigliamento per bambini, ed era gestita da un certo Prestifilippo, col primo pianoforte a rullo visto a Piazza. Successivamente in via Umberto, di fronte al palazzo Trigona, ve ne fu un'altra ma con ballerini e ballerine, diciamo, più "selezionati". Nelle case i ritmi più in voga erano i màzùrchi e i contradànzi, raramente i peccaminosi tanghi, e per finire le sfiancanti tarantelle, al suono o dei grammofoni o, poi, delle radio coi dischi a 78 giri. Per rendere le serate più confortevoli si offrivano favi bùgghiuti, lupini, passuluni, scàcc e vìng. Dopodiché i mascàrati o si toglievano le maschere, facendosi riconoscere, o se ne andavano per continuare il giro. I benestanti si riunivano nei circoli al suono delle orchestrine, mentre le sfilate delle maschere avvenivano o al teatro Garibaldi (anche mio nonno Tatano ne organizzò qualcuna, indimenticabili i sacchi enormi pieni di coriandoli) o in piazza Garibaldi, sopra il grande marciapiede centrale costruito da poco e chiamato tabarè, per la forma che ricordava un vassoio. Ma un carnevale lo si ricorda per un fatto increscioso. Nel 1904, durante il passaggio di un carro dei sostenitori dell'avv. Calogero Cascino (1864-1932) rappresentante un treno in cartapesta, dove si giocava a carte barando e alludendo così all'opera negativa del deputato Luigi Marescalchi (1857-1936) che ostacolava la costruzione della ferrovia, il clima scherzoso degenerò a tal punto da causare tre morti, sei feriti e numerosi arresti. In questo caso, purtroppo, non valse il detto "Carnevale ogni scherzo vale!".
Gaetano Masuzzo/cronarmerina.it
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Porte della Città/di S. Martino

Chiesa di S. Martino I Chiesa Madre
Via Gesù Maria ingresso Porta S. Martino, con la chiesa in fondo
La Porta di S. Martino doveva essere tra le prime, se non la prima, della Città ricostruita dopo la distruzione del 1161. Era la porta che nei decenni successivi servirà a controllare il lato Est della Città Vecchia che comprenderà anche quello sottostante il Castello (Castrum Reginae), la Castellina. Questa Porta immetteva direttamente in quella che doveva essere la prima Piazza Maggiore davanti la chiesa del Patrono dei Normanni. La piazza era in collegamento diretto, tramite l'odierna via Misericordia, che rispetta precisamente l'andamento delle antiche mura sulla valle Rocca, col vecchio Castello di Placea, 200 metri ca. più in alto. Pertanto la via Misericordia doveva essere la prima Stràta Mastra del nuovo abitato (dopo saranno le vie Crocifisso e Monte, a secondo l'espansione abitativa). Anticamente la via Misericordia era intesa anche come "stata di li chiappi", probabilmente perchè erano tanti gli abitanti che erano soliti mettere al sole a seccare i fichi, che poi, diventando secchi, assumevano "quella" forma tipica, e che servivano tantissimo a integrare la dieta povera dei nostri antenati. La porta era distante dall'ultima, quella Catalana, almeno 500 m., ma successivamente, e una pianta del 1689 ce lo conferma, si riscontra la presenza di un'altra porta tra le due, quella che immetteva nella via Vallone di Riso, da non confondere con via Costa Vallone di Riso che era fuori le mura. Dalla via Vallone di Riso, attraverso la successiva via Tudisco si percorreva la parallela della via Monte, via Antonio Crescimanno, una volta chiamata via Madonna della Stella e, prima ancora, via Madonna della Facciranna, arrivando quasi al cuore della Città, nella piazza delle scuole della Trinità, a pochi metri dalla piazza della Chiesa Madre dal 1308 di S. Maria Maggiore (oggi Piazza Duomo).
cronarmerina.it
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1781 Turisti di due secoli fa

Dieudonné de Dolomieu, 1750-1801

Vi riporto l’intera impressione che nel 1781 il geologo francese Dieudonné (o Dèodat) de Dolomieu (1750-1801) in visita in Sicilia, ebbe della nostra Città: <<A Piazza… su una piccola piazza all’interno della città c’era una cavità da cui usciva un vapore bituminoso e sulfureo… allaricostruzione di Piazza e vi si ricostruì sopra un basamento in muratura che porta una croce… Accanto al convento di S. Maria di Gesù c’è una cavità perpendicolare dalla quale uscivano, fino a poco tempo fa, vapori solforosi. Ci sono molti altri luoghi del territorio dove i vapori si sono aperti una uscita, e molte sorgive d’acqua, anche fredde, hanno un movimento violento d’ebollizione… C’è a Piazza, sopra la città un olivo notevole… così è stato constatato che quell’albero ha più di cinquecento anni… Vi ho trovato la massima abbondanza di frutti d’ogni specie>>. Probabilmente si tratta della piazza antistante la chiesa di S. Lorenzo detta anche dei Teatini. Infatti, nel grande dipinto restaurato, raffigurante il teatino S. Andrea Avellino e Maria SS. Delle Vittorie, nella mappa della città di allora si distingue una croce in pietra in mezzo allo spiazzo antistante la chiesa, attorniata da una processione ecclesiastica.  
Gaetano Masuzzo/cronarmerina.it
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Oggi, San Biagio

S. Biagio nella Chiesa di S. Stefano
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Oggi si festeggia San Biagio, Vescovo del III secolo, di cui a Piazza c'è l'unica statua nella chiesa di S. Stefano, sopra il I altare entrando sulla dx, e non a caso. Infatti, tra la fine del '500 e l'inizio del '600 a Piazza si manifesta il culto verso Santo Stefano nell'adiacente Porta di San Giovanni Battista. All'inizio si tratta solamente di un oratorio, poco fuori le mura, con un solo altare dedicato al Santo, per pregare affinché fossero tenute lontane dalla città, le epidemie introducibili dagli stranieri e dagli abitanti dei paesi viciniori, attraverso la porta sucitata. Si racconta che per il miracoloso intervento di S. Biagio, e qui arriviamo al perché della presenza della statua nella chiesa di S. Stefano, non era entrata in Città una grave malattia dell'apparato respiratorio e, in ringraziamento di tale evento, fu attribuito un particolare culto a questo Santo presso questa chiesa. Nella seconda metà del '600 la chiesa viene ingrandita e abbellita e forse fu in questo periodo che vi si colloca l'altare maggiore in marmo che era stato smontato dalla chiesa di S. Anna. (Notizie tratte dal volumetto di Mons. Carmelo Messina, Parrocchia S. Stefano, 2004). 
Colgo l'occasione per fare gli auguri di buon onomastico a tutti i Biagio, Biagino, Gino, Bràsi e Bràsg, e quindi a mio padre Gino. 
(Nella foto: nella mano dx il Santo tiene un pettine - sembra una molla - per cardare la lana con il quale fu straziato prima di essere decapitato)
cronarmerina.it
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