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Gaetano Masuzzo

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Mostro di una Culòvria!

La Culòvria nella vasca abbeveratoio dell'Altacura
La Culòvria in un'aiuola alla Villetta Ciancio o Villetta Roma
La Culòvria (in tutto il suo spendore!) al Chiostro dei Gesuiti


Il termine Culòvria (o Culòrvia, Culòfria, Culòfia, Culòvia, Culòriva, Culòrva, Biddìna, dipende dalla provincia siciliana) è in genere riferito alle grosse femmine della Natrìce (volgarmente: biscia dal collare), mentre nel vocabolario di Fonti troviamo Còlubro, che in Wikipedia è chiamato Còlubro lacertino o Còlubro di Montpellier (Malpolon monspessulanus). Questo è un serpente non sempre velenoso, ampiamente diffuso nella regione mediterranea. Appartenente alla famiglia dei colùbridi (Colubridae) è il più grande serpente opistoglifo (che possiede denti scanalati nella regione posteriore dei mascellari) europeo. Questo grosso serpente, in alcuni esemplari adulti, può superare i 220 cm di lunghezza, sebbene di norma sia più piccolo e raramente superi i 180 cm, quindi non raggiungono le dimensioni di cui parlano i contadini. Diciamo che in Sicilia trovarne una superiore ai 150 cm è quasi un’impresa, e quindi sono spesso soggetto di dicerie ed esagerazioni. Le sue dimensioni considerevoli, consentono al còlubro lacertino, di catturare una gran varietà di prede, sebbene le preferenze varino in base all'età e alle dimensioni stesse degli individui: da giovane l'alimentazione si basa su lucertole e piccoli sauri, ma crescendo la dieta si arricchisce di sauri più grossi, topi, ratti, uccelli di terra e addirittura conigli, catturati all'interno delle loro tane. A Piazza esiste una¹ scultura in pietra raffigurante una culòvria cavalcata da un putto alato. La scultura era posta nella fontana-abbeveratoio dell’Altacura, nel sito odierno del distributore di benzina (nella foto in alto appare già mancante di putto alato). Quando la fontana fu eliminata, la scultura fu spostata nella prima aiuola (foto in mezzo) di fronte l’entrata della Villetta Ciancio (o Villetta Roma) rimanendo sino al 1980, finché, sindaco di Piazza Ignazio Furnari, fu trasferita nel chiostro dei Gesuiti (Biblioteca Comunale) dove si trova ancora nell’angolo a sx (foto in basso). Per finire non si può non parlare della Biddìna (dall’arabo grosso serpente d’acqua). Con questo termine si voleva intendere un mostro terribile con bocca e occhi rossi, un piccolo drago o serpente di diversi metri, con una mole tale da poter inghiottire in un solo boccone un agnello o addirittura un piccolo uomo. Numerosi i racconti legati a questo rettile-mostro, soprattutto da parte di anziani, che nelle serate invernali intrattenevano i loro nipoti che ascoltavano con gli occhi sbarrati, al posto di TV, PC, DVD, DDT e video giochi vari.

 
¹ In un primo momento voci di anziani avevano fatto credere che le sculture fossero due.
 
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Famiglia Branciforti

D'azzurro al leone coronato d'oro sostenente con le gambe del davanti uno stendardo rosso, astato di nero, caricato da tre gigli d'oro, svolazzante a sinistra. Nella punta a destra due zampe mozzate d'oro poste a croce di Sant'Andrea


L’antichissima famiglia Branciforte/i venne in Italia verso l’anno 800 al seguito di Carlo Magno da cui ricevette la città di Piacenza, dove il Casato si distinse per onore e grandezza. Nel 790 Obizzo, alfiere generale delle milizie carolinge, subisce l’amputazione delle mani a difesa della bandiera, per la quale gli vale l’appellativo di De Branchiis Fortibus, da allora chiamato Obizzo Branciforti, ricambiato con Terre e Castelli nel Piacentino. Nel 1300 da Piacenza la famiglia arriva a Platie e Stefano è il I barone di Mazzarino e Gallizzi nonché maestro razionale del Regno. Subito dopo Raffaello è il II barone di Mazzarino e castellano di Piazza. Nel 1398 Nicolò I conte di Garsiliato IV barone di Mazzarino e capitano di Plaza, diventa barone del Casalotto e di altri 9 feudi. Gli eredi, in seguito ad acquisti e a matrimoni, diventano titolari anche dei feudi: 1415 S. Cono e Gibiliusi, 1540 ca. Tavi (poi Leonforte), Melilli e Cammarata, 1550 Castiglione, 1556 Fessima e Pietratagliata, 1591 Barrafranca, Militello, Terra di Occhiolà (poi Grammichele), 1600 ca. Butera, Pietraperzia, 1610 Tavi-Leonforte (con Nicolò Placido I Branciforti fondatore), 1676 Terra di Occhiolà (diventa Grammichele con Carlo Maria Branciforti fondatore). Nel 1598 Francesco Branciforti permuta il borgo Casalotto con i giurati di Platea, in cambio dei diritti sulle acque del fiume Gela per i suoi mulini posti sotto Mazzarino. Nel 1638 Ottavio Branciforti è il vescovo della Diocesi di Catania, della quale Platea fa parte, e visita la Città. Questa famiglia, insieme a poche altre (4 o 5) residenti a Piazza, è fondamentale per l'evolversi della vita civile e militare di tutta la regione, a iniziare dai secc. XV e XVI.
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Porte della Città/dell'Ospedale

La Porta dell'Ospedale in via Roma, venendo dalla Taccùra
Via Roma, dov'era la Porta dell'Ospedale,
La quarta porta di cui conosciamo l'esistenza è quella chiamata Porta dell'Ospedale altrimenti chiamata Porta Taccura (o Tacura, Tachura, Altacura), per la zona di provenienza dell'unica via in quel versante. A noi Piazzesi questo nome (dell'Ospedale) può sembrare completamente fuori "luogo", in quanto la nostra memoria (molto recente rispetto ai secoli) ci ricorda soltanto un sito che può meritare questo appellativo, quello dell'Opedale "Chiello", al Monte. Invece, in 9 secoli di storia, il nostro ospedale ha cambiato per 7 volte il nome e per 5 volte la sede (dedicheremo altre puntate agli Ospedali della Città). Le prime notizie, nei pressi del centro abitato, di un ospedale, se così poteva chiamarsi in quel periodo, sono quelle che ci portano al 1142, quando il conte Simone Aleramico si riserva un'area all'altezza della chiesa di S. Barbara, nell'odierna via Roma, che destina a ospizi e ostelli, idonei a curare i cittadini lombardi e ad assistere i viandanti e i pellegrini, Questi ospizi "Ospedali" sono retti da frati appartenenti all'Ordine di S. Giacomo d'Altopascio (Lu), tra i quali esiste una prevalenza di elementi ospedalieri su quelli militari. Già, quarant'anni prima, questi Cavalieri, al seguito de conte Enrico Aleramico, cognato del conte Ruggero I d'Altavilla, avevano fondato un ospizio-ospedale, Domus Hospitalis dedicato a S. Giacomo, alle porte dell'odierno abitato a pochi metri dall'ingresso del cimitero comunale. L'Ospedale-Ospizio rimane in quella zona di S. Barbara, appunto chiamata dell'Ospedale, sino al 1420, quando la nobile Giacoma Villardita (o Velardita) lo trasferisce nei pressi della sua abitazione al Monte, dove assume il nome di Ospedale di S. Calogero e di S. Maria degli Angeli. E' ovvio che la porta, a pochi passi dall'Ospedale, non poteva non prendere quel nome di semplice memoria e di chiara ubicazione che si trovava lungo la strada anch'essa denominata dell'Ospedale. Questa porta regolava il passaggio dalla parte Sud-Est, ed era considerata di vitale importanza per la breve distanza dal Piano del Borgo, oggi Piazza Garibaldi, e dal Piano di S. Rosalia, specie nel periodo d'espansione della Città dall'originario quartiere verso la parte più bassa (secc. XVI e XVII). Inoltre, era l'unica porta esistente in quella zona, perché per trovarne un'altra, quella Catalana, si dovevano percorrere oltre 400 m., costeggiando le mura nelle odierne vie Mendozza e Stradonello, che difendevano dall'alto, il fianco Sud della Città molto più impervio.
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