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Cronarmerina - Dicembre 2015

Sepoltura di nobili piazzesi a Palermo

Lapide sepolcrale coniugi Trigona e Starrabba, 1670, chiesa di S. Maria della Catena, Palermo

Chiesa di S. Maria della Catena, Palermo, XV-XVI sec.

Sin dai primi anni del Seicento, alcuni appartenenti alle nobili famiglie piazzesi, avevano deciso di soggiornare e, in alcuni casi, di trasferirsi definitivamente a Palermo. Era il periodo della grandiosa operazione urbanistica che modificò con demolizioni, sventramenti ed edificazioni il tessuto topografico della città. I nobili e gli ordini religiosi per attestare la loro opulenza e potenza facevano a gara nell'edificare splendidi palazzi, chiese sontuose, grandiose case conventuali. I baroni si presentavano alla Corona come l'unica forza in grado di assicurare la pace sociale e la fedeltà alla Spagna da parte dei Siciliani. Tra questi nuovi palermitani troviamo alcuni componenti di due tra le più nobili, ricche e influenti famiglie di Piazza, la Trigona e la Starrabba. Questa presenza di piazzesi nella capitale della Sicilia è confermata da una lapide sepolcrale (foto in alto) nella chiesa di Santa Maria della Catena (foto in basso). Edificata tra la fine del '400 ed i primi del '500 la dove c’era già un’antica cappella votiva, la chiesa di Santa Maria della Catena era così chiamata perché si trovava ad una delle estremità della catena di ferro che chiudeva il vecchio porto al fine di impedire le incursioni nemiche, ma anche a memoria del miracolo avvenuto nell’agosto del 1392 per il quale tre palermitani, che dovevano essere ingiustamente impiccati in Piazza Marina, legati dai propri carnefici all’altare dell’antica cappella, nell’attesa che passasse un forte temporale sopraggiunto, videro accolte le loro preghiere alla Madonna, la quale gli parlò liberandoli dalle catene. Il progetto della chiesa è attribuito a Matteo Carnalivari, insigne architetto rinascimentale di cultura catalana. In seguito al prolungamento sino al mare del Cassaro (oggi Corso Vittorio Emanuele) nel 1581, si creò un dislivello che fu colmato con una scalinata d’accesso¹. Dopo l'ingresso si notano tre navate e ai fianchi delle due navate laterali sono presenti le cappelle, aggiunte più tardi. Per i danni dell'ultimo conflitto mondiale, sono rimaste integre le cappelle del lato destro, mentre la parete di sinistra è stata danneggiata dai bombardamenti². È proprio in una delle semi-cappelle ricostruite (la seconda nel lato danneggiato di sx) che troviamo la lapide nella foto in alto. Leggendola attentamente si scopre che è stata posta nel 1670 da don Antonino Maria Trigona e Starrabba, in ricordo dei suoi genitori, don Antonio (o Antonino junior) Trigona barone di San Cosmano morto due anni prima (1668) e donna Solomea Starrabba e Landolina, figlia del regio milite Pietro barone di Scibini e di Francesca Landolina baronessa di Giardinelli³. Inoltre, sia i due Trigona sia Solomea erano nipoti del barone Marco Trigona (1546-1598), in quanto lui e il fratello Antonio erano figli del barone di Spedalotto sposato con una Starrabba, Vincenza. Un'ulteriore conferma che i matrimoni tra nobili parenti erano frequentissimi, l'abbiamo dallo stesso barone Marco che aveva sposato Laura (1557-1597) figlia di sua sorella Beatrice e di Giovan Francesco de Assaro, pertanto Laura era nipote di Marco. Per quanto riguarda il sito originario della posa della lapide, esiste qualche dubbio derivante da quanto è riportato in una pagina dell'opera "Della Sicilia Nobile" del marchese di Villabianca Francesco M. Emanuele Gaetani4 «Per chiosa di questo capitolo [riguardante la famiglia Trigona] placemi trascriver quivi una nobile iscrizione sepolcrale di un Cavaliere di questa Casa, che vedesi in questa nostra Metropoli [Palermo] nella chiesa di S. Giuseppe dei Padri Teatini incisa in una tavola di marmo posta per pradella dell'Altare di S. Andrea Avellino» e segue l'identica iscrizione nella lapide. Si sconoscono i motivi per i quali la lapide si trovi oggi nella chiesa palermitana di Santa Maria della Catena, se l'Emanuele Gaetani l'ha vista a metà del Settecento presso la chiesa dei Teatini ai Quattro Canti5.     

¹ Cfr. il sito http://www.turismopalermo.it/chiese-palermo/chiesa-santa-maria-della-catena (consultato il 22 gennaio 2020). Originariamente le scalinate erano due laterali. Il prolungamento creò il cosidetto "Cassaro morto" cioè l'ultimo tratto della strada, il tratto più "giovane ma meno nobile" (Le chiese del Cassaro morto, palermo.mobilità.org, consultato il 25 gennaio 2020).

² Cfr. il sito http://www.palermoviva.it/chiesa-santa-maria-della-catena/ (consultato il 22 gennaio 2020).

³ Ciò spiega i blasoni delle due famiglie nei due quarti superiori degli stemmi ai lati dell'iscrizione: Trigona e Starrabba, mentre in quelli inferiori ci sono i blasoni di due antenate di Solomea, a sx quello della nonna, Ippolita Sortino b.ssa di Scibini, a dx quello della madre, Francesca Landolina b.ssa di Giardinelli. 

4 F. M. Emanuele e Gaetani, Della Sicilia Nobile, Nella Stamperia de' Santi Apostoli per P. Bentivegna, Palermo 1757, Vol. 3, Continuazione della Parte II, p. 183.

5 Qualche giorno dopo la pubblicazione del post, l'amico Antonio Barbera, che segue costantemente il mio sito da Messina, mi ha segnalato che nella "Guida per Palermo e pei suoi dintorni" del barone V. Mortillaro, Tip. del Giorn. Letterario, Palermo 1836, senza numero della pagina, ma che io ho rintracciato nelle pp. 31-32 dell'edizione Stamperia degli eredi Graffeo, Palermo 1829, nella chiesa della Catena, facente parte della Parrocchia della Kalsa, «avvi in questa chiesa una immagine di San Gaetano, quadro [...] di Pietro Novelli [...] nella terza cappella che entrando è a sinistra, e nella cappella contigua uno di Sant'Andrea Avellino del Carrega» ciò a dimostrazione che anche in questa chiesa dei CC. RR. Teatini esistesse una cappella dedicata a Sant'Andrea Avellino. Probabilmente, come dice l'amico Antonio, «l'errore [del marchese di Villabianca] di ubicazione è possibile in quanto lo scopo del Gaetani è scrivere un libro sulle famiglie nobiliari non sulle chiese e confraternite di Palermo».

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Storia recente dell'Istituto Industriale

L'I.T.I.S. di piazza Senatore Marescalchi, Piazza Armerina, 2019

Nel precedente post Prima di Majorana eravamo rimasti all'ultima intitolazione, avvenuta nel 1982, dell'Istituto Tecnico Industriale di Piazza Armerina al fisico nucleare catanese Ettore Majorana. In questi giorni, dovendo pubblicare l'esistenza del VI orologio solare presente a Piazza Armerina, ho consultato il sito internet dell'Istituto e dalla "Storia della scuola" ho appreso che ci sono stati alcuni cambiamenti, sia nella denominazione che nell'indirizzo dell'istituto scolastico. Nel 1997 all'Istituto Tecnico Industriale è stato aggregato il P.A.C.L.E. ovvero l'Istituto Perito Aziendale e Corrispondenti in Lingua Estera, evoluzione dell'antico Istituto Tecnico Femminile oggi Istituto Tecnico per il Turismo. Sempre nel 1997 avviene l'aggregazione all'Istituto dei due Licei presenti a Piazza, il Liceo Classico, intitolato nella prima metà del '900, al gesuita piazzese Prospero Intorcetta e, successivamente, al generale Antonino Cascino e il Liceo Scientifico, nato nel 1969, autonomo dal 1975 e intitolato al preside Vito Romano nel 1981. Dall'anno scolastico 2016/2017, in seguito al piano di riorganizzazione della rete scolastica siciliana, è stato costituito il nuovo I.I.S. (Istituto d'Istruzione Secondaria) Tecnico Industriale ed Economico "Ettore Majorana - Antonino Cascino" a indirizzi Chimica, Elettronica, Informatica, Meccanica, Turistico, Liceo Classico e Liceo Scientifico. L'unica cosa che, lungo tutti questi anni, è rimasta immutata, è il suono della sirena. Però, mentre prima veniva azionata immancabilmente alle 8:00 esatte, per invitare gli alunni a fare il loro ingresso a scuola, da alcuni anni il suono è stato anticipato alle 7:55. La sirena doveva servire a ricordare e ad abituare gli alunni che la scuola, essendo a indirizzo "industriale", fosse già un'industria, con orari e ritmi particolari ben precisi.      

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La grande lapide a San Martino

Lapide sul pavimento all'ingresso della chiesa di San Martino di Tours, Piazza Armerina

Chiesa di San Martino di Tours, XII sec., Piazza Armerina

Nell’ultima mia visita, dell’11 novembre scorso, alla chiesa di San Martino di Tours della nostra Città, ho rivisto e rifotografato la lapide nella foto in alto. Questa volta ho provato a capire di cosa si tratta. Siamo nel 1589¹, la nostra città, chiamata oltre che Platia anche Plaza, da settant’anni porta il titolo di Civitas Opulentissima (Città Ricchissima) ottenendo il privilegio di accollare lo stemma comunale all’aquila nera della Casa reale d’Aragona. Ma l’opulenza non ripara la comunità dalle continue epidemie di peste delle quali, dai primi decenni del secolo, ve ne sono state ben sette, causando ogni volta migliaia di vittime, nonostante le misure adottate dai vari medici, uno fra tutti il protomedico del Regno, il piazzese Antonio Pirro morto a Palermo nel 1532. Tra le misure adottate c’è anche quella ignorante, superstiziosa e sbrigativa di dare alle fiamme tutto quello che capita, comprese le carte dei vari archivi, come nel 1575, quando vengono distrutti secoli di notizie sui nostri antenati. Anche le carestie, quasi sempre conseguenti alle cicliche siccità, hanno provocato tanti morti e in Sicilia, negli ultimi cinque anni, sono stati ben 250.000. Tutto ciò, però, non rallenta l’incremento della popolazione a Piazza, che raggiunge oltre i 16.000 abitanti, quasi tutti situati nell’antico quartiere, o meglio, negli antichi quartieri, che formano la città murata². Uno di questi è quello che dal XIII secolo si è venuto a formare attorno a quella che si ritiene la prima chiesa della città, distrutta nel 1161 e ricostruita nei decenni successivi non per volontà dei Normanni, come la tradizione ci aveva tramandato, bensì per quella degli Aleramici. È la chiesa di San Martino di Tours (foto in basso) che dà, appunto, il nome al quartiere che vi gravita intorno. La chiesa è anche la sede della numerosa Confraternita di Santa Maria della Carità, formata da Sacerdoti e Artigiani, sotto il titolo dei Defunti. Ed eccoci arrivati alla nostra lapide, l’unica rimasta delle tante che dovevano esserci, ma andate perdute nei vari restauri, rimaneggiamenti e ristrutturazioni deleteri. Con la lapide il Priore, che è il responsabile e rappresentante della confraternita che si riunisce nella chiesa, vuole ricordare il benefattore che si è prodigato nell’aiutare i parrocchiani meno fortunati, probabilmente durante l'ultima epidemia. Il priore pro-tempore è il nobile Andrea D’Assaro, sicuramente un parente stretto di Laura de Assaro, moglie del barone Marco Trigona, e del padre, il medico e matematico Giovanni Francesco de Assaro. Il D’Assaro fa scolpire e murare sullo scalino d’ingresso alla chiesa, per essere sotto gli occhi di tutti i fedeli quando varcheranno l’entrata nei secoli a venire, il nome del benefattore, Antonino Spalletta³, piazzese appartenente alla nobile famiglia Spalletta o Espelletti4 che «essendo molto pietoso» dona nel 1589 la somma di 100 onze5 alla parrocchia di San Martino6. La traduzione completa è la seguente «IL PRIORE ANDREA D’ASSARO PROVVEDE [a porre questa lapide per ricordare] LA GENEROSITÀ DI ANTONINO SPALETA E LO ZELO [mostrato nell'impiego della somma] DEI PADRI CAPPELLANI DON FRANCESCO TALERI E FRANCESCO BONCORE». Con questa spiegazione ho cercato di collocare la lapide in un preciso periodo storico della nostra comunità, cercando, soprattutto, di dare nuovo lustro a dei concittadini di ben quattro secoli fa.   

¹ Cf. Alceste Roccella, Storia di Piazza, vol. Famiglie nobili, ms. inedito, XIX secolo, s.v. Espelletti o Spalletta.

² Nel Cinquecento i quartieri erano quelli di San Martino, della SS. Trinità, della Castellina, di San Giovanni Battista e di Santa Maria dell’Itria.

³ Di Antonino Spalletta risultano anche due legati di maritaggio annuali per le orfane piazzesi (cf. Alceste Roccella, Storia di Piazza, vol. Uomini Illustri, ms. inedito, XIX sec.).  

4 Cf. A. Roccella, Storia di Piazza, vol. Famiglie nobili, cit., s.v. Espelletti o Spalletta.

5 Sarebbero € 14.000 ca. di oggi.

6 Cf. A. Roccella, Storia di Piazza, vol. Famiglie nobili, cit., s.v. Espelletti o Spalletta.

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Gli stemmi aragonesi a Piazza

FOTO 1: Castello Aragonese visto dall'alto, Piazza Armerina

FOTO 2: Stemma di Federico d'Aragona III di Sicilia (o di Trinacria dal 1302), 1296

FOTO 3: Stemma Corona d'Aragona o Barre d'Aragona, 1150

FOTO 4: Stemma di Federico II di Svevia, 1220

In occasione delle giornate del FAI (Fondo Ambiente Italiano) del 12 e 13 ottobre 2019, sono stato invitato presso il Castello Aragonese di Piazza Armerina (Foto 1) dal FAI e dal proprietario Sig. Giancarlo Scicolone, per parlare degli stemmi Aragonesi a Piazza, in particolare di quello che doveva esserci al Castello Aragonese, quando fu costruito alla fine del Quattrocento. Dopo il prof. Salvatore Lo Re, che ha parlato dei castelli precedenti, e la laureanda Giulia Milazzo, che ha parlato del castello dal punto di vista architettonico, ho iniziato a parlare degli stemmi della Casa Reale, originaria dell’Aragona, che dovevano esserci in questo maniero. Dico dovevano, perché in loco non ne sono stati trovati, ma possiamo ipotizzare quali dovevano essere nel periodo tra il Trecento e il Quattrocento. Intanto, diciamo che lo STEMMA è uno scudo che racchiude degli elementi grafici che consentiva (e consente) di richiamare alla mente subito e con chiarezza una famiglia, un capo o un re, durante le battaglie, quando gli eserciti non indossavano le stesse divise. Poi furono usati negli eserciti in guerra e, tra una guerra e l’altra, durante i combattimenti simulati nei tornei. Il sistema di identificazione fu così efficiente che venne adottato in tutta Europa, tanto che nacquero dei funzionari addetti, chiamati “araldi”, in grado di riconoscere i numerosi simboli, dando così vita all’Araldica. Pertanto, sicuramente in un castello come questo o sulle porte d’ingresso della città, doveva esistere uno stemma in metallo, o in legno, in pietra, in marmo, oppure uno stendardo in stoffa, che avrebbe dovuto far capire anche da lontano, chi fosse il sovrano che regnava. Nel periodo poco prima della costruzione e a costruzione avvenuta, quindi poco prima del 1400, lo stemma del regnante consorte di allora (regnava assieme alla moglie, Maria d’Aragona dal 1392) Martino d’Aragona¹, I di Sicilia dal 1401, detto il Giovane, era quello voluto un secolo prima, nel 1296, da un suo antenato, Federico d’Aragona III re di Sicilia (o di Trinacria dal 1302), quando questi fu incoronato a Catania nel Castello Ursino. Quindi lo stemma esposto nel castello doveva essere quello nella Foto 2, "Inquartato in croce di Sant'Andrea, al 1° e 4° quarto le Barre d'Aragona, al 2° e 3° quarto d'argento all'aquila col volo abbassato di nero di Svevia-Sicilia". Le “Barre d’Aragona” altrimenti chiamate “Le 4 barre” o “I 4 pali” servivano a ricordare la Corona d’Aragona (Foto 3), formata dal Regno d’Aragona e dalla Contea di Barcellona, unitisi nel 1150, in seguito al matrimonio tra la regina d’Aragona e il conte di Barcellona; le “Aquile di Svevia-Sicilia” servivano a ricordare che lui, Federico III di Sicilia, era pronipote per via materna dell’imperatore Federico II, il quale aveva come stemma, appunto, “un’aquila a volo abbassato di nero posta in campo d’oro” (Foto 4), mentre in quello di Svevia-Sicilia era in “campo d’argento”. Le “Barre d’Aragona”, ovvero i “4 pali di rosso in campo d’oro”, ricorderebbero il viaggio, fatto da uno dei primi re d’Aragona, Sancho Ramírez (1064-1094), a Roma nel 1068, per consolidare il giovane regno d'Aragona offrendosi in vassallaggio al Papa, Alessandro II (1061-1073), documentato insieme all'ammontare del tributo annuo di 600 marchi d'oro. Da ciò si è dedotto che da questo viaggio tornarono, come emblema del vincolo vassallatico, le “barre rosse e oro”, ispirate alle fascette rosse dei sigilli vaticani su fondo dorato, colori propri della Santa Sede e visibili tuttora nell'ombrello Vaticano. Ma a Piazza esistono altri tre stemmi di regnanti con insegne aragonesi. Questi tre stemmi si trovano tutti nel Collegio dei Gesuiti, due murati nel portico e uno, molto grande e di metallo, all’interno della sala della Mostra del Libro Antico. I due murati sono tra i più belli e prestigiosi che abbiamo nella nostra città, e si trovano nel portico grazie al recupero, voluto dal dott. Francesco Galati, durante dei lavori nel collegio negli anni 80/90. Uno è del 1504 ed è di Ferdinando II d’Aragona re di Sicilia dal 1468, ma sullo stemma troviamo il simbolo del Regno di León, un “leone rampante”, di cui era diventato il re da quando aveva sposato la cugina Isabella di Castiglia e León nel 1469. L’altro è, come si può leggere alla base dello stemma, del 1512, e si riferisce sempre al re che rese possibile la scoperta dell’America nel 1492, ovvero Ferdinando II re d’Aragona, ma che, qualche anno dopo, nel 1512 appunto, avrebbe istituito nella nostra città il Tribunale dell’Inquisizione retto prima dai Domenicani e poi dai Gesuiti. Guardando la foto, a colori è meglio, si distinguono i Regni del sovrano in quel periodo. Il terzo stemma con all’interno i colori Aragonesi è quello di Ferdinando I delle Due Sicilie, presente nella sala della Mostra del Libro Antico. È di tre secoli dopo rispetto ai primi due, quando a re Ferdinando I di Borbone re di Sicilia e re di Napoli fu concesso, nel 1816, di riunire i due Regni in quello delle Due Sicilie. Questo stemma si trova nel Collegio dei Gesuiti, perché dal 1780 nel Collegio era stata istituita da re Ferdinando la Real Accademia degli Studi, erede della precedente Università degli Studi, voluta dal gesuita don Antonino Chiarandà, e nello stemma, appunto, c’è la scritta REALE ACCADEMIA DEGLI STUDII DI PIAZZA. Non mi rimane che consigliarvi di visitare, ora che sapete queste prestigiose presenze, il portico del Collegio dei Gesuiti qui accanto e la Mostra del Libro Antico, dove troverete altri nostri gioielli, non ultima l’epigrafe papale affissa, nel 1600, sulla porta della biblioteca del Convento dei Francescani Osservanti di San Pietro.

¹ Martino d'Aragona (1374-1409) rimasto vedovo della prima moglie nel 1401, sposò l'anno seguente Bianca di Navarra che, nel 1411, si rifugiò proprio nel Castello Aragonese di Piazza, per non essere catturata dalla parte avversa, guidata dal conte di Modica, Bernardo Cabrera (Cfr. C. Urso, Regine e dame nei castelli..., Annali Univ. St. Catania, 2009, p. 29).

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U sciùm Vaddutànu

Se ricordo bene, il detto "Tu si còm u sciùm Vaddutànu" andava in voga a Piazza sino agli anni Sessanta/Settanta, poi niente più. Spesso lo sentivo ripetere da mia mamma nei miei confronti o, qualche volta, verso altri parenti o conoscenti. Devo ammettere che a me, non sapendo cosa volesse dire, non faceva né caldo e né freddo, anche se qualcosa, seppur lontanamente, intuivo, perché bastava fare due più due per avere il risultato di quattro, ovvero il duro rimprovero per aver esagerato, ancora una volta, nel fare una certa azione. Faccio un esempio, prima di spiegare da che cosa deriva il detto. Come tanti "geni incompresi" io a scuola andavo così così, e in certi periodi "nan n vulìva màncu d' calàta", ovvero "non ne volevo neanche di discesa" cioè studiavo di malavoglia, perché avevo "altro" a cui pensare: il gioco a casa o quelli in via Bonifacio con i compagni, l'associazione cattolica a Santa Veneranda, leggere giornaletti, insomma altri importanti interessi. Certi periodi, invece, mi sedevo sulla mia piccola scrivania, che poi non era altro che il tavolino della cucina o una sedia, subito dopo pranzo e non mi alzavo se non dopo aver fatto tutti i compiti e oltre, per ore e ore. Forse è meglio non esagerare, per mezz'ore e mezz'ore. Quindi passavo dal completo disinteresse, che poteva sfociare in negligenza, all'impegno totale che mi coinvolgeva completamente, gettandomi appassionatamente a capofitto. E così nello sport, nelle amicizie, negli affetti, etc., con risultati non sempre positivi e soddisfacenti per la mente, per il cuore e per l'anima. Però, tornando al significato, non capivo a che cosa si riferisse il termine "vaddutànu".
Di recente ho avuto la possibilità di avere tra le mani il volume inedito Storia di Piazza - Famiglie Nobili del nostro concittadino avv. Alceste Roccella. Ebbene, scorrendolo, mi sono imbattuto in un feudo in possesso di alcune nobili famiglie di Piazza¹, il Gallitano e, tra parentesi, quasi sempre, come veniva chiamato dai Piazzesi, Vaddutanu, senza accento. Subito è partita la ricerca per capire il nesso tra il feudo e il famoso proverbio. Alla fine sono arrivato a questa conclusione.
Il «vasto feudo nobile Gallitano» come dice in una nota il Roccella, si trova «Oggi [...] in provincie di Girgenti con miniere di zolfo appellasi vulgarmente "Vaddutanu"» e, più precisamente, ce lo indica il medico e sacerdote Giuseppe De Gregorio (1703-1771) nel suo opuscolo stampato nel 1746 «Il Ragionamento accademico intorno ad una mofeta di un'acqua minerale di Sicilia; fatto storico fisico accaduto nel feudo del Gallitano, cinque miglia distante dalla terra di Mazzarino» e a est di Sommatino, dove «la Valle del Salso si spalanca in una vasta conca oblunga, definita dalla terrazza fluviale e chiusa tutt'intorno dai rilievi dell'altopiano gessoso - solfifero. Il fiume [Salso o Imera Meridionale] serpeggia pigro lungo la pianura, descrivendo cinque grandi anse tra brevi colline argillose modellate dalle arature, prima di sparire inghiottito dallo stretto di Gallitano»².
Quindi, il feudo Gallitano è attraversato dal fiume Salso chiamato in questo tratto Gallitano, in dialetto Vaddutànu. Il fiume qui trova uno stretto con delle gole che ne rallentano la portata, quasi nulla nella stagione secca, ma che le forti precipitazioni autunnali provocano piene improvvise, che possono anche causare pesanti danni ai terreni adiacenti al corso del fiume³.
Ecco spiegato come "Vaddutànu" fosse la dizione dialettale di Gallitano, come veniva chiamato il tratto del fiume Salso - Imera Meridionale quando attraversava, appunto, il feudo omonimo, posseduto da nobili piazzesi, e quindi conosciuto molto bene dai compaesani, ed esistente tra Mazzarino e Sommatino (vedi foto)4. Il fiume in quella zona era ricordato per l'esigua portata durante la stagione secca e per le piene improvvise e abbondanti, a tal punto da provocare frequenti inondazioni, specie in autunno (come sta avvenendo in Sicilia in questi giorni). Tutto ciò spiega perché il fiume veniva preso da esempio per indicare qualcuno (o qualcosa) che non aveva mezze misure, proprio còm u sciùm Vaddutànu, quàn a sìccu sìccu, quànn a sàccu sàccu... còm i 'nvasàti5.

¹ Palermo, Crescimanno, Trigona.

² Gazzetta Ufficiale - Regione Sicilia, DECRETO ASSESSORIALE 3 maggio 1997 - Dichiarazione di notevole interesse pubblico della Bassa Valle del Salso o Imera Meridionale. (GU Serie Generale n. 187 del 12-08-1997).

³ Cfr. Wikipedia, Imera Meridionale - Regime, 24/10/2019.

4 6 km a ovest di Mazzarino e 4 km a est da Sommatino.

5 Come il fiume Gallitano, quando a secco secco, quando a sacco sacco... come gli indemoniati.

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Due stemmi misteriosi

Stemmi prospetto via Umberto, monastero di San Giovanni Evangelista, Piazza Armerina

Era dal 2009 che, dopo una "dritta" del mio amico Totò Murella, sapevo dell'esistenza di questo tesoretto. E dire che c'ero passato accanto migliaia di volte, senza accorgemene, essendo stato anche alunno del vicino istituto Magistrale alla fine degli anni Sessanta. Sì, perchè questo piccolo gioiello è composto da due stemmi scolpiti a rilievo su un unico blocco di pietra arenaria, inserita quasi come pietra angolare, all'inizio del grandioso edificio del monastero delle Benedettine di San Giovanni Evangelista prospiciente la via Umberto, all'angolo con la via Enrico De Pietra. Le sculture rappresentano una delle tante cose di cui ho cercato di darmi una spiegazione, ma senza riuscirci. Dopo l'ennesima richiesta di qualche amico ho cercato di dare una spiegazione, ma purtroppo molto limitata. I due stemmi rappresentano a sx "l'aquila al volo abbassato di nero posta in campo d'oro" degli Hohenstaufen originari dalla Svevia (nell'attuale Germania), da loro adottata in seguito all'investitura reale nel XII secolo¹. A dx è scolpito chiaramente "un leone rampante" che potrebbe richiamare la casa d'Angiò². I due stemmi scolpiti accanto forse ci rimandano alle nozze, nel 1297, tra Violante d'Aragona (1273-1302), figlia di Costanza di Svevia II di Sicilia e di Pietro III d'Aragona, con Roberto d'Angiò (1277-1343) duca di Calabria e re di Napoli nel 1309. Inoltre, potrebbero ricordare coloro i quali vollero o contribuirono alla costruzione dell'edifico monastico, ma sappiamo solo che il Monastero benedettino delle suore omonime di San Giovanni Evangelista venne fondato nel 1361 dalla nobile Florentia de Caldarera, vedova del regio milite e giudice Giovanni senior de Caldarera, e ingrandito nei decenni e secoli successivi. Ma il loro stemma familiare è completamente diverso da quelli nella foto. L'altezza alla quale la pietra squadrata è posta, potrebbe far pensare anche a una costruzione anteriore al monastero o, considerando che proprio quella parte di edificio fu colpita da un incendio nel 1932, che essa sia una pietra riciclata proveniente da un altro antico edificio, ma quale? Io non so rispondere, per adesso. Fatto sta che è un reperto importantissimo a cavallo dei secoli XIII e XIV, quindi tra i più antichi e ben conservati della Città che, purtroppo è stato deturpato da scatole e fili elettrici, per ignoranza, superficialità e negligenza contemporanee di cui siamo specialisti.

¹ Nel 1138 Corrado fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero a Coblenza. I successori Enrico VI, Federico II e Corrado IV furono anche re di Sicilia. La casata si estinse in linea maschile diretta con Manfredi (1232-1266) e Corradino di Svevia (1252-1268). Proseguì, invece, attraverso Costanza di Svevia o di Sicilia o d'Aragona (1249-1302), figlia di Manfredi (fonte Wikipedia). 

² Il leone è rappresentato con la testa in profilo (ciò che lo distingue dal leopardo), ritto sulla zampa posteriore sinistra, con la destra alzata, e le zampe anteriori protese come verso una preda (cioè rampante), con la coda ripiegata verso la schiena, la bocca aperta e la lingua visibile. Il leone, con la sua reputazione di forza, di coraggio, di nobiltà, così conforme all'ideale medievale, veniva spesso utilizzato in araldica, soprattutto dai Plantageneti. Questi furono una casata comitale medievale, anche chiamati seconda casa d'Angiò o Angiò-Plantageneti, originari dell'odierna Centro-Valle della Loira e successivamente dei Paesi della Loira (Angiò). Divenne una casata di rango regale con Enrico II d'Inghilterra (fonte Wikipedia).

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Un altro stemma al Carmine

Lo stemma all'interno della chiesa del Carmine, Piazza Armerina

In una chiesa di quasi quattro secoli non si finisce di trovare elementi interessanti da approfondire, facendosi aiutare dall'immenso volume del concittadino Litterio Villari¹, da internet e, perché no, dall'intuito. È il caso dello stemma nella foto, un bassorilievo in gesso che si trova ad altezza d'uomo, sul pilastro addossato alla parete della controffacciata, entrando a sx, nella nostra chiesa del Carmine. Forse esisteva anche dall'altra parte, prima di qualche restauro non proprio certosino. Le figure riprodotte nello scudo ovale inquartato ecclesiastico ci indicano: nel 1° quarto (a sx in alto) tre uccelli, due dei quali, i superiori, posti frontalmente coi becchi che si sfiorano. Potrebbero ricordare lo stemma del priore sotto il governo del quale fu sistemato il bassorilievo, oppure potrebbe rappresentare il maestro che parla agli studenti della casa di studi (o Studio Pubblico), già esistente dalla prima metà del XV secolo nel convento piazzese per la formazione delle nuove vocazioni. Lo Studio Pubblico di Plaza, come veniva chiamata la nostra città da quando regnavano gli Spagnoli, dal 1555 vide l'avvio della Scuola Musicale Piazzese da parte dell'ottimo musicista piazzese padre Riccardo La Monica, continuata dal 1577 dal maestro musicista sottopriore padre Antonio Sanso (o de Sanso). Sette anni più tardi, il maestro fondatore della Scuola Polifonica Siciliana, Pietro Vinci da Nicosia, portò a Piazza le novità della Scuola Musicale Veneziana, dispensando consigli e suggerimenti ai Padri Carmelitani di cui sopra e al laico piazzese Antonio il Verso, che divenne il massimo rappresentante della Scuola Polifonica Siciliana; nel 2° quarto (a dx in alto) 8 sfere, in araldica chiamate anche bisanti², che ricordano le otto punte dei raggi della stella simbolo dei Carmelitani. Il numero di 8 raggi era adottato nelle province governate dalla Spagna, mentre, per esempio, in Francia i raggi erano 5 e in Germania, Olanda e Italia 6; nel 3° quarto (in basso a dx) è riportato il giglio, simbolo di San'Alberto di Trapani, inteso anche come Sant'Alberto sacerdote Carmelitano o Sant'Alberto Abate o Abbati. Quest'ultimo era il cognome del padre di Alberto, Benedetto Abate ammiraglio della flotta di Federico II di Svevia. Nato tra il 1240 e il 1250 a Trapani e morto nel 1307 a Messina, nel XVI secolo fu stabilito che ogni chiesa carmelitana avesse un altare a lui dedicato e, infatti, nella chiesa di Piazza è il primo altare di dx; nel 4° quarto (in basso a sx) è raffigurata la palma, simbolo di Sant'Angelo di Gerusalemme o di Sicilia o di Licata martire. Nato nel 1185 a Gerusalemme, morì martirizzato a Licata (AG) nel 1225 (per altri nel 1239). Nella chiesa di Piazza gli è stato dedicato il 1° altare di sx. La palma si spiega sia perché il Santo era nato a Gerusalemme e la palma ricordava l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, sia perché il Santo essendo un martire, era simboleggiato dalla palma che era un segno di resurrezione (dei martiri), di gioia, di trionfo, di rinascita, di sacrificio e di purezza. Secondo la tradizione Sant'Angelo di Sicilia visse nella nostra città e forse fondò il nostro Convento nel 1238. Sant'Alberto di Trapani, sempre secondo la tradizione, venne a Piazza forse nell'occasione del Parlamento del Regno del 1296, ed essendo un famoso santo taumaturgo, suscitò nella nostra città grande devozione. Nel 1585 la Provincia Carmelitana Siciliana si divise in due, prendendo i nomi dei Santi sopracitati: la Provincia di Sant'Angelo quella a occidente, la Provincia di Sant'Alberto quella a oriente di cui faceva parte il nostro convento.

¹ Litterio VILLARI, Storia Ecclesiastica della città di Piazza Armerina, S.M. di S.P., Messina 1988, pp. 261-277.

² È un termine utilizzato in araldica per indicare un tondino di metallo. Il nome deriva dal bisante, moneta d'oro coniata a Bisanzio e introdotta in Europa dopo che i Crociati presero Costantinopoli (o Nuova Roma) nel 1204, oggi chiamata Istambul (Turchia). 

Altri stemmi nella chiesa (Famiglia Iaci e Famiglia Crescimanno)  e nel chiostro del Carmine.

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Conversazione Piazza Garibaldi/6

(dalla 5^ parte) Attaccato al Palazzo di Città c’è il Palazzo che prima ospitava un albergo (foto in alto). Poi l’edificio dell’albergo, in pessime condizioni, fu riedificato, come lo vediamo oggi, dal barone e deputato Salvatore Camerata, originario di Butera. Al centro della facciata c’è una lapide del 1921 che ricorda i combattenti morti nella I Guerra Mondiale (foto in mezzo). L’edificio restaurato fu prima l’abitazione del barone Camerata, poi questi si trasferì nel palazzo Starrabba di via Garibaldi, per essersi sposato con una Sceberras, e il palazzo divenne la sede degli uffici della Sottoprefettura e l’abitazione del Sottoprefetto. Qualche anno dopo divenne la sede del Commissariato di Polizia e, ancora dopo, la sede dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, dell’Autoscuola Villari e degli uffici del Museo Archeologico della Villa Romana, prima di trasferirsi al Palazzo Trigona. Oggi c’è lo studio legale dell’Avv. Roberta Orlando. Nel lato ovest della piazza (foto in basso), quello che fa angolo con la via Vittorio Emanuele ex Calàda ô Culègiu (discesa del Collegio), sembra che ci fosse la sede della Corte Capitanale di cui parla il Villari¹: «Sorsero intorno alla piazza il Palazzo Crescimanno; la Loggia Comunale (poi abbattuta nel ‘700 per dare posto al Palazzo di Città o Palazzo del Senato); il palazzetto del Capitano di Giustizia (accanto alla Loggia) detto anche Corte Capitanale; la chiesa di San Rocco». La Corte era retta da un capitano di Giustizia coadiuvato da Giudici e Ufficiali. Nella parte centrale esistono due lapidi: la più piccola delle due (riquadro giallo) ricorda il discorso fatto da Giuseppe Garibaldi da questi balconi il 14 agosto 1862; quella più grande (riquadro rosso) fu posta nel luglio del 1944 a ricordo sia della piccola che della fine della tirannide fascista. Alla fine della 2^ Guerra Mondiale i caduti piazzesi furono 151, compresi 2 partigiani e 11 della Repubblica di Salò. La conversazione col prof. Masuzzo è continuata parlando dei vari esercizi commerciali, dei loro gestori e/o proprietari e degli autisti da noleggio dagli anni Trenta sino ai nostri giorni. Inoltre, verso la fine sono state mostrate una dozzina di foto, scattate nella piazza in diversi periodi e manifestazioni. Nell'ultima foto il prof. Gaetano era a bordo della nuova Vespa Piaggio col padre Gino, nella sfilata in occasione della festa della Befana del 1956, festa che si svolgeva annualmente nella nostra tanto amata piazza Garibaldi.     

¹ Litterio Villari, Storia della città di Piazza Armerina, IV edizione, IBN Editore, Roma 2013, p. 347.

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Come un sorso di birra

Quando un poesia, anche se può sembrare semplice, senza tante pretese, mi colpisce, ne faccio partecipi i miei lettori. Oggi ho letto questa sul profilo Facebook di un mio amico e, prima ancora, compagno di scuola al Magistrale. Sì, nella sezione "A" del prestigiosissimo Istituto "Francesco Crispi" di Piazza Armerina, alla fine degli anni Sessanta. Prestigiosissimo ma bistrattato istituto di come è stato ridotto, dopo un restauro abortito e incompiuto. Che peccato! Anche l'accostamento tra la birra, che a me piace tanto, e la vita, l'ho trovato "spumeggiante" e tanto "riflettente". Grazie Franco.

COME UN SORSO DI BIRRA¹

È come un sorso di birra
La vita…
Nel retrogusto d’amaro
di sale, d’antico.

Ma tanto ti garba
e torni a libare
e sentirti stordire
quel tanto che basta.

E già… come la vita
amara, salata, stordente
un poco illusoria
ma tanto sfottente.

T’illude, ti gasa…
e dopo t’accascia.
Sirena ammaliante
col cuore di strega.

Eppur non ti basta,
malgrado l’oltraggio
ti aggrappi al suo stelo
ne brami il retaggio.

E quando di colpo
lei sta per sfuggire
ne implori il prosieguo,
l’importante è finire
con Dignità.

Francofor², copyright 08/2019

 

¹ Mi sono permesso di mettere io il titolo e di suddividerla in strofe per agevolarne la lettura.

² Franco Forestiere.

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Conversazione Piazza Garibaldi/5

In giallo come doveva essere l'inferriata sul piano dinnanzi al Palazzo di Città di Piazza Armerina

(dalla 4^parte) La prof.ssa Lucia Todaro riporta una poesia in galloitalico del notaio Remigio Roccella, dove parla di quello che si può vedere sul CIÀNGH Î FERRI Â CÖRT (sul Piano con l'inferriata nella corte del Palazzo di Città) in piazza Garibaldi, prima del 1884. Io l’ho tradotta così:

«Sotto il portone del palazzo di Città
c’è uno spiazzo circondato da un’inferriata.
Questo luogo è sempre pieno di oziosi,
che non vuole lavorare e qui passeggiano,
dato che il sole li riscalda ogni mattina.
Medici, preti, calzolai, farmacisti,
avvocati, villani, maestri barbieri,
notai, muratori e sagrestani,
commercianti, mastri d’ascia e bottegai,
facchini, sarti, puttanieri
e nobili e ricchi e poveri servitori,
facendo salvi le giuste eccezioni,
tutti di questo e quello parlano male,
stanno immobili e passeggiano a coppie».

La professoressa conclude la vicenda dell’inferriata, in ferro battuto e bronzo, così:       

«STORI D’ORBI: I FERRI Â CÖRT… RUDÙI [Storie di ciechi: i ferri alla corte… rosicchiati]. La poesia del Roccella fu scritta prima del 1884, quando per fare le strade principali, questa inferriata, fatta in ferro battuto e bronzo, fu staccata e conservata nei magazzini del Comune. Fu conservata così bene che non si trovò più! L’avvocato Rosario Roccella riporta che qualcuno, per ridere, s’inventò che se l’erano rosicchiata i ratti. E così rimase il modo di dire, quando una cosa spariva senza sapere il chi e il come, ma si sapeva, eccome: ‘’E che è rimasto come i ferri alla Corte?’’. I buchi ancora si notano nelle pietre del piano! Andateli a vedere!»
Aggiungo io che, probabilmente, l’inferriata era stata collocata per impedire l’accesso al piano agli asini e ai muli che avrebbero sporcato. (continua)

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